RESPONSABILITA SOCIALE
67% degli intervistati vorrebbe lavorare in un'”impresa socialmente responsabile”
NB: Leggi questo interessante articolo del noto economista Leonardo Becchetti.
In quest’anno che si è appena aperto, nonostante le tante nubi che si addensano all’orizzonte di economia e società, si intravedono anche fondati elementi di speranza. L’ultima indagine Nielsen sulla responsabilità sociale (2014) condotta su decine di migliaia di persone in più di 56 Paesi rilevava che il 67% degli intervistati vorrebbe lavorare in un’”impresa socialmente responsabile”. Parallelamente sempre più imprenditori d’Oltreoceano investono gran parte del loro tempo in iniziative di filantropia e si preoccupano, oltre che del profitto, dell’impatto (sociale) delle loro attività sulle comunità di riferimento. In quest’anno che si è appena aperto, nonostante le tante nubi che si addensano all’orizzonte di economia e società, si intravedono anche fondati elementi di speranza.
Nulla di strano, in fondo, se pensiamo alla vera gerarchia dei bisogni scritta dentro di noi. Esistono “beni superiori” e “beni inferiori”, ovvero beni che contribuiscono di più e beni che contribuiscono di meno a dare senso e soddisfazione alla nostra vita. In un’ideale piramide di Maslow, dove alla base ci sono i beni inferiori e necessari e poi vengono i beni superiori, il profitto sta sotto e l’impatto sociale sta sopra, e con esso il desiderio di rendere felice chi è nel bisogno e di essere apprezzato e amato dai propri simili per aver fatto qualcosa di utile per la società. Una prova empirica di ciò sono gli studi econometrici sulla soddisfazione di vita quando indicano chiaramente che la relazione tra reddito personale e soddisfazione di vita è concava. Abbiamo bisogno di risorse economiche per poter vivere degnamente, ma al di sopra di una certa soglia guadagnare di più non ci rende più felici. Altre evidenze provenienti da diverse discipline (dagli studi su felicità e salute alla ricerca sui neuroni a specchio) ci confermano che siamo fatti di relazioni e per massimizzare il senso e la felicità della nostra vita non c’è niente di meglio che rendere i nostri simili felici assieme a noi.
Coerentemente con la spinta proveniente da questa scala di bisogni, nel corso degli ultimi anni qualcosa sta cambiando nella stessa patria del capitalismo. Negli Usa si è levata l’ondata delle benefit corporations (autorizzate in una trentina di Stati), cioè di imprese che vogliono andare oltre obiettivo del profitto per subordinarlo alla massimizzazione dell’impatto sociale ed ambientale. Sono dunque sempre più numerose le notizie di imprenditori che passano dal profit all’impact e decidono che lo scopo più nobile della vita è avere un impatto positivo sulla vita dei propri simili. L’esempio di Bill Gates, e della fondazione che ha costruito con la moglie, non è l’unico. Basta guardare al cambio di vita del fondatore di E-Bay e all’impegno umanitario di molti dei miliardari della rete. Il fatto che siano diventati ricchi molto prima di quanto accadesse ai magnati del passato accelera il loro “ciclo di vita”, convincendoli ad impegnare energie in età ancora giovane verso il bene comune.
L’elemento che ancora stona nel processo è l’approccio “a due stadi” che prevede che si debba prima costruire enormi ricchezze per iniziare a redistribuire. La via più breve ed efficace resta invece quella di iniziare da subito a dare il massimo senso alla propria vita occupandosi di creare valore economico, sociale e ambientale sostenibile, valore condiviso tra i portatori d’interesse. Ed è questa la novità verso cui le b-corporations tendono, pur nei loro limiti e contraddizioni, dimostrando che lo spazio occupato da tempo dalle imprese sociali e cooperative in Italia sta diventando sempre più appetito dal mondo del profit. C’è dunque un filone “carsico” d’ispirazione che scorre nelle vene della storia, emerge in forme sempre nuove ma parte da lontano, dalla nascita dei Monti di Pietà, dei crediti cooperativi e arriva più recentemente al commercio equosolidale, alla banca e alla finanza etica, al microcredito, generando attraverso un processo di azione e reazione, di contagio, imitazione e concorrenza competitiva la responsabilità sociale d’impresa. Non roviniamo la festa ai neofiti delle b-corporations e alla loro soave superficialità del pensare di essere stati i primi ad inventare l’impresa responsabile se ciò serve ad alimentarne ancor più l’entusiasmo. Ci basterà ricordare che, se davvero l’impresa che subordina la creazione di valore all’impatto sociale “inizia oggi” con la benefit corporation, allora tutto quello che è venuto prima è b-corporation… ante litteram.
Ciò che è veramente importante è che il fiume del progresso verso il bene comune continui a scorrere verso la foce e che l’ispirazione sia sempre più supportata da imprenditori illuminati, istituzioni benevolenti e orientate al bene comune, cittadini attivi e consapevoli di detenere metà del potere sui mercati, quello della domanda che sceglie cosa comprare e come risparmiare. Se tutto procederà nella direzione giusta, un giorno ci accorgeremo che dal modello d’impresa di qualche anno fa a quello del futuro passa la stessa differenza che c’è tra uno spettacolo di gladiatori della Roma antica e di una partita di rugby. E in tempi in cui tutto corre velocissimo, il passaggio da un’epoca all’altra potrebbe essere molto più rapido
Fonte: Editoriale di Avvenire del 29-01-2016