Dalla coca al cacao equo e solidale si può, Icam e Perù

Azienda italiana lavora con rete coop Acopagro, solidarietà conviene a tutti

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Dalla foglia di coca alla fava di cacao: è possibile un’intera economia contadina per decenni basata sulla produzione di coca, ed è possibile farlo in termini tale per cui la solidarietà conviene a tutti, produttori e trasformatori.

E’ questa l’esperienza portata a Expo dalle cooperative del Perù che rientrano nella rete Acopagro e dall’azienda cioccolatiera italiana Icam. Le buone pratiche del Perù in agricoltura sono state in grado di combattere il traffico di droga e in certe realtà la dove prima si coltivava coca ora si coltiva caco, e lo si esporta in termini economicamente sostenibili per i produttori. Secondo i dati dell’Unodoc, l’ufficio Onu per la lotta alla droga e alla criminalità, nel 2014 le superfici coltivate a coca sono diminuite in Perù del 14% rispetto al 2013. Merito di iniziative come quella delle cooperative peruviane di Acopagro, che riunisce 2.000 coltivatori ed è oggi al settimo posto tra le prime 10 aziende esportatrici di cacao del Perù. “Abbiamo iniziato circa 20 anni fa, un periodo nel quale sembrava impossibile parlare ai contadini di sostituire la coca col cacao – ha detto a Expo il direttore commerciale di Acopagro, Gonzalo Rios -. Ora siamo tra i principali produttori di cacao biologico del Paese. Offriamo un prodotto che ha un mercato internazionale e, soprattutto, i contadini vivono meglio, usano le tecnologie agricole più avanzate e hanno accesso al microcredito, uno strumento fondamentale per poter convertire le coltivazioni.

Siamo riusciti anche a istituire premi per la qualità del loro cacao e borse di studio per i figli”.

Acopagro esporta soprattutto in Svizzera, Belgio e Italia.

Qui ha incontrato Icam (storica azienda cioccolatiera di Lecco, con 350 dipendenti e un fatturato di 125 milioni di euro) e Otto Chocolates, giovane impresa genovese specializzata nella produzione di cioccolato certificato biologico e Fairtrade.

“Oggi il rendimento economico della coltivazione di cacao compete con quello che viene dalla coltivazione della coca – ha spiegato il presidente di Icam, Angelo Agostoni -. Questo è il punto di svolta di tutto. Non c’è più una ragione economica per tornare alla coca. La filiera va oltre i confini del Perù e prosegue in aziende come la nostra, fino ai consumatori”.

Icam importa dal Perù 5mila tonnellate di cacao all’anno, di cui 3.500 sono di cacao proveniente da commercio equo solidale.

“Collaboriamo con Acopagro da sei anni, abbiamo condiviso il nostro know how, lo abbiamo guidati verso la crescita qualitativa del prodotto. L’acquisto da parte di Icam del cacao prodotto è diventato un elemento basilare per consentire il consolidamento e la crescita delle cooperativa stessa”.

(di Ilaria Liberatore) (ANSA) – MILANO, 21 LUG

Milano, dopo 30 anni chiude McDonald’s: la sua ricetta non piace più in Italia (e nel mondo)

Chiude un punto vendita Mcdonald’s a Milano dopo ben 30 anni di attività. Una crisi che ha investito il marchio nella sua interità e che non sembra essere passeggera. Le previsioni, infatti, non sono affatto rosee.

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Sarà un caso sicuramente, ma proprio mentre lo stile italiano continua a conquistare nuovi spazi nelle maggiori capitali del mondo, come Londra, dove dopo la “trattoria” in stile italiano di Angela Hartnett sarà la volta dello chef Jacob Kenedy di inaugurare la sua “pizzeria” italiana, Vico, dove sarà possibile mangiare “street food” di origine rigorosamente italiana a prezzi assolutamente abbordabili (Kenedy è del resto da tempo innamorato dell’Italia: è suo, infatti, il ristorante di lusso Bocca di Lupo, sempre a Londra), lo stile “fast food” è sempre più in crisi, a cominciare dall’insegna più nota al mondo, quella di McDonald’s. Non è un caso che il 19 Luglio abbia chiuso il primo McDonald milanese, quello di San Babila, aperto ormai 30 anni fa.

Non solo da un paio d’anni almeno le trimestrali del gruppo si succedono deludendo quasi invariabilmente le attese di analisti e investitori: secondo un sondaggio condotto da Mark Kalinowski, analista finanziario che da anni è specializzato nel settore della ristorazione, avendo lavorato tra l’altro per broker come Janney Montgomery Scott, Buckingham Research Group e Citigroup, le cose rischiano di andare ancora peggio in futuro. Le previsioni per i prossimi sei mesi sono infatti al loro minimo storico.

Mark ha chiesto a 29 franchisee che nel complesso posseggono 208 ristoranti McDonald’s in tutti gli Stati Uniti, di indicare le proprie previsioni sull’andamento degli affari nei prossimi sei mesi dell’anno utilizzando una scala da 1 (deludente) a 5 (eccellente): il risultato medio è risultato pari a 1,69, il minimo da quando 12 anni fa Mark ha iniziato a condurre questo sondaggio. Notare che il minimo precedente era stato toccato, solo tre mesi fa, con un indice medio di 1,81.

Non è solo una questione di aspettative: dall’indagine è emerso che in giugno le vendite dei 29 franchisee sono in calo mediamente del 2,3% annuo, calcolate sui soli ristoranti che erano già aperti 12 mesi fa (“same store sales”) e che ci si aspetta un ulteriore calo dell’1,2% nel mese di luglio. Un dato peggiore delle attese degli analisti di Wall Street, il cui consenso parla tuttora di un incremento delle vendite, fatto che rischia di portare a nuovi cali del titolo in borsa.

Cosa non sta funzionando del tentativo, messo in atto da tempo, di far voltare pagina al gruppo? Uno dei partecipanti al sondaggio è stato fin troppo esplicito: “L’azienda non ha risposte. Loro (i manager di McDonald’s, ndr) stanno provando a gettare delle idee contro il muro, sperando che qualcuna attecchisca. La loro arroganza complessiva è venuta alla radice”. Almeno in questo le grandi corporation Usa non sembrano molto dissimili da quelle di tutto il resto del mondo, ma se in altri casi l’arroganza del management può essere tollerata dai risultati che ottiene, in casa McDonald’s non è così.

Eppure McDonald’s ha reagito alla pubblicazione del report, che a Wall Street ha ceduto giovedì l’1,8% e venerdì un ulteriore 0,37%, con una nota sdegnata in cui si sottolinea come siano “circa 3.100 i franchisee che possiedono e gestiscono ristoranti McDnald’s in tutti gli Stati Uniti. Meno dell’1% di essi è stato intervistato per questo report. Valutiamo il feedback dei nostri franchisee ed abbiamo solide relazioni di lavoro con essi”.

A giudicare dalla risposte dei singoli partecipanti al sondaggio non si direbbe che le cose stiano così, almeno non in tutti i casi. Tra le lamentele più frequenti, sono state citate deboli azioni di marketing, una “povera” percezione da parte della clientela e l’ignoranza dell’azienda (ovvero dei suoi manager). Uno dei rispondenti ha ad esempio spiegato che le sue vendite “continuano a calare a causa dei nuovi concorrenti” e di non attendersi niente di buono per tutto il 2015. Un altro ha spiegato che “almeno metà degli operatori della mia regione sono sull’orlo di un collasso. Con la paga minima dei dipendenti dei fast food che potrebbe continuare a crescere, siamo affrontando una situazione di crisi”.

Il sospetto di molti analisti, tuttavia, è che più che un problema di costi o di marketing non particolarmente brillante, McDonald’s non stia riuscendo a tener testa a nuovi e più aggressivi concorrenti, da Shake Shack a Sonic piuttosto che Whataburger, le cui vendite sono costantemente in crescita e che dunque erodono la base-clienti di McDonald’s mese dopo mese. Nel tentativo di metterci una pezza a maggio il Ceo Steve Easterbrook ha annunciato un piano di ristrutturazione che dovrebbe portare a 300 milioni di dollari di risparmio all’anno e che prevede, tra l’altro, che entro il 2017 solo il 10% dei ristoranti con insegna McDonald’s sia di proprietà dell’azienda, contro l’80% attuale.

Inoltre la società inizierà a diffondere i risultati di vendita solo più su base trimestrale, e non mensile come finora, a partire dal terzo trimestre dell’anno. Mosse che mi paiono molto difensive e forse persino all’insegna di una minore trasparenza, come se il management pensasse che a far guadagnare terreno alla concorrenza sia l’eccessiva conoscenza della “ricetta” aziendale di McDonald’s. Non sembra tuttavia essere questa la sola né la principale causa di debolezza della maggiore catene di fast food al mondo, che ha iniziato ad andare in crisi prima sui mercati internazionali, poi anche negli Usa, per non aver saputo proporre nuovi menù in grado di soddisfare una clientela sempre più esigente e non necessariamente con poco denaro da spendere. Che McDonald’s sia destinata ad essere la vittima più illustre della crescita del reddito mondiale? L’ipotesi al momento non può essere esclusa.

fonte: http://www.fanpage.it/  –  20 luglio 2015

 

Il colonialismo armato delle multinazionali. Il caso della multinazionale Chiquita in Colombia.

Chi sostiene le varie guerre che insanguinano il mondo, fonte di instabilità planetaria e degli esodi di massa? Ecco il caso in Colombia della Chiquita Brand, quella del bollino blu, con sede principale negli Stati Uniti, multinazionale della frutta che domina il mercato delle banane, presente in 11 paesi con un fatturato di 2,2 miliardi di dollari.

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Tre centesimi di dollaro per ogni cassa di banane. Era questo il racket che la multinazionale alimentare pagava ai paramilitari di estrema destra delle Autodefensas Unidas(Auc), affinchè garantissero protezione alle proprie piantagioni dalla guerriglia delle Farc. Il fatto è già noto, la Chiquita, che inonda i supermercati e i negozi con il bollino blu, è stata condannata a pagare 25 milioni di dollari.

Quello che però è più recente è il fatto che le 934 vittime, che vengono attribuite alla Chiquita tramite la mano dei gruppi armati che finanziava e che erano tra i protagonisti della guerra in Colombia, non avranno giustizia. 4mila colombiani hanno sporto denuncia presso i tribunali statunitensi contro la multinazionale di quel paese; ma i tribunali a stelle e strisce hanno risposto di non essere competenti poiché i fatti sono avvenuti fuori dalle frontiere degli Stati Uniti. In verità non sempre è stata eccepita l’incompetenza territoriale per quello che a lungo è stato considerato l’orto di casa.

Secondo la versione dell’azienda tutto ebbe inizio nell’anno 1995. Un pulmino di suoi operai, nella regione dell’Urabà, fu fermato dai paramilitari delle Auc mentre si dirigeva in uno dei molti campi di banane della zona. Gli occupanti furono fatti scendere, costretti ad inginocchiarsi e mentre guardavano per l’ultima volta il fertile orizzonte della regione falciati tutti a colpi di fucile. Morirono in 38 e la Chiquita per evitare altre azioni incominciò a pagare ai paramilitari il pizzo che chiedevano.

Versione non si sa quanto credibile. Infatti, già nel 1928, quando si chiamava United Fruit, l’azienda bananiera ordinò all’esercito colombiano, come fosse al suo servizio, di porre fine allo sciopero dei suoi braccianti con la famigerata strage di Aracataca in cui morirono 300 persone e che Gabriel Garcia Marquez ha descritto nel suo capolavoro “Cent’anni di solitudine”.

La multinazionale ha già confessato di aver finanziato le Auc, organizzazione armata attiva nell’alimentare il terrore nel paese sudamericano ed emanazione del narcotraffico, con 1,7 milioni di dollari tra il 1997 e il 2004, ma non sarà processata per la sua partecipazione alle stragi di inermi cittadini, grazie a cavilli formali. Anche se il famigerato capo supremo delle Auc, Carlos Castano Gil ha raccontato in un’intervista al El Tiempo, quotidiano colombiano, che il 5 novembre 2001 arrivò nel porto di Zungo un grande cargo battente bandiera panamense che scaricò direttamente in un magazzino della Chiquita 23 container, ufficialmente carichi di palloni di gomma, in verità di 3mila fucili AK 47 e 5 milioni di cartucce calibro 5,62. Le armi erano destinate dalla multinazionale con il bollino blu ai paramilitari delle Auc.

La Chiquita, attraverso una complessa ingegneria finanziaria è ancora ben presente in Colombia e ha continuato a versare ingenti quantità di denaro alle cooperative di sicurezza, dietro cui si nascondono tuttora le Auc. Lo ha affermato il quotidiano di Bogotà, El Espectador.

– di: Pedro Cardenas –

fonte: http://100passijournal.info   –   14/07/2015

Kraft-Heinz, la fusione ora è ufficiale

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Sarà la settima food & beverage company al mondo, guidata dal brasiliano Hees. Previsti subito tagli ai costi per 1,5 miliardi di euro.

 

 

The Kraft Heinz Company è ora una realtà. L’approvazione della fusione da parte degli azionisti di Kraft Foods dà il definitivo via libera all’operazione nata a marzo con la proposta lanciata da H.J. Heinz, che delle due entità è quella che “compra”. Nasce così ufficialmente un colosso da 29,1 miliardi di dollari di fatturato aggregato (dati 2014), ovvero 26,2 miliardi di euro, somma dei 10,9 miliardi di dollari di fatturato di Heinz, cui si aggiungono i 18,2 miliardi di Kraft. La proprietà sarà per il 51% dei soci di Heinz, ovvero la Berkshire Hataway di Warren Buffet e il fondo a capitali brasiliani 3G Capital, che rilevarono qualche anno fa la società pariteticamente. Sarà quotata alla borsa di New York.

La nuova società, lo dimostra il fatturato, sarà un big mondiale del food & beverage: nella speciale classifica per ricavi in euro (bilanci 2014) si posiziona direttamente al settimo posto che vede in testa Nestlè con 91,6 miliardi di franchi svizzeri (85,8 miliardi di euro), PepsiCo con 66,7 miliardi di dollari (60 miliardi di euro), Ab Inbev con 47 miliardi di dollari (42 miliardi di euro), The Coca-Cola Company con 45,9 miliardi di dollari (41,3 miliardi di euro), Jbs con 120,5 miliardi di Real brasiliani (34,9 miliardi di euro), Mondelez Internazional con 34,2 miliardi di dollari (30,8 miliardi di euro).

Sono arrivate subito le nuove nomine di vertice: l’amministratore delegato del nuovo colosso sarà il brasiliano Bernardo Hees, già a capo di Heinz, mentre a capo delle operazioni europee ci sarà Matt Hill, anch’esso di derivazione del colosso del ketchup. Molte le fuoriuscite tra il management di Kraft, com’era lecito attendersi. Nei prossimi 2 anni la società procederà a tagli di costi per 1,5 miliardi di dollari: uno sforzo decisamente importante ma in linea con l’operatività di 3G capital, nota nel mondo per la capacità tagliare all’osso le spese. Quando acquisì Heinz taglio 7400 pusti di lavoro e chiuse 5 stabilimenti produttivi.

In parallelo alla ridefinizione dei costi partirà anche la revisione delle ricette e dei prodotti: lo aveva lasciato intendere lo stesso Warren Buffet lo scorso marzo mentre illustrava l’operazione: l’Oracolo di Omaha aveva esplicitamente parlato di una sfida salutistica per le grandi multinazionali del cibo, che non può essere ignorata perché arriva da richieste molto precise dei consumatori. La nuova conglomerata agirà in questo senso, è il parere di alcuni analisti americani che hanno commentato l’operazione.

fonte: http://www.foodweb.it/     6-7-2015

Fairphone 2, lo smartphone etico e smontabile

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Maggiori informazioni su Fairphone:

http://it.wikipedia.org/wiki/Fairphone

http://www.unimondo.org/Notizie/Do-you-have-a-Fairphone-148081

http://www.fairphone.com/

Se il Fairphone si era proposto come via etica alla telefonia mobile, grazie a salari equi e all’uso di metalli non provenienti da zone di conflitto come il tantalio congolese, la nuova versione dello smartphone made in Olanda va contro lo spreco tipico del consumismo. Il Fairphone 2 sarà infatti smontabile con un cacciavite e le sue componenti potranno essere sostituite, in modo da allungare il ciclo di vita del prodotto. Il dispositivo si potrà preordinare in estate a un prezzo di 525 euro.

Lo smartphone, spiega la società in un post, è pensato per durare e non per finire abbandonato in un cassetto ed essere rimpiazzato nel giro di un anno. Per questo ogni elemento può essere sostituito e aggiornato, ma anche aggiunto in futuro, come nel caso dell’Nfc per i pagamenti mobile. Se una delle cause principali per cui un telefonino va in riparazione è la rottura dello schermo, il nuovo Fairphone promette resistenza, grazie a una cornice di magnesio, ma anche la possibilità di cambiare il display in meno di un minuto: basta rimuovere case, batteria e sganciarlo dalle due clip che lo tengono fermo.

Le specifiche tecniche del Fairphone 2 sono nella media. Il cellulare Lte ha display da 5 pollici, fotocamera da 8 megapixel, processore Snapdragon 801 di Qualcomm, 2 GB di Ram e 32 GB di memoria interna, espandibile con schede microSD. Della prima versione del dispositivo la compagnia ha venduto 60mila pezzi.

da www.ansa.it –  18/06/2015

Polemica Nutella, Ségolène chiede scusa su Twitter. Il commento di Carlo Petrini

Milano (askanews) – “Chi solleva le querelle deve avere il fisico di sostenerle perchè se poi al primo impatto chiede scusa, la querelle non sta in piedi”. Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, dice la sua sull’attacco sferrato dal ministro dell’Ecologia francese, Segolene Royal, alla Nutella. Ministro che per altro nell’arco di poche ore ha ritirato le accuse e chiesto scusa. “I politici – ha notato Petrini – sono abituati a dire le cose e a smentirle, almeno questo ha chiesto scusa”.
Sul banco degli imputati c’è l’olio di palma, per produrre il quale intere foreste vengono distrutte soprattutto in Paesi come Indonesia e Malesia. “L’olio di palma è usato in abbondanza nell’industria alimentare in genere – ha osservato il fondatore di Slow Food – quindi si auspica una riduzione da parte di tutti perchè fa innanzitutto bene alle popolazioni che hanno subito la distruzione di ecosistemi e in secondo luogo anche alla salute anche se forse questo è meno importante rispetto all’impatto che ha avuto sugli ecosistemi”.

Non mangiare più la Nutella per salvare il pianeta

nutella“Non mangiare più la Nutella per salvare il pianeta”. E’ l’ultima battaglia del ministro francese dell’Ecologia, Ségolène Royal, che intervistata in diretta tv al Grand Journal di Canal +, ha invitato i telespettatori a non mangiarne più per contribuire a salvare il pianeta. Royal ha insistito sul fatto che “la deforestazione massiccia che come conseguenza ha anche il riscaldamento climatico”. E la deforestazione è causata anche dall’uso dell’olio di plama, contenuto nella Nutella.

Fonte: www.ansa.it

Data: 16/06/2015

Crescita sprint per Fairtrade: +18% nel 2014

fairtradeIl valore del venduto del commercio equo certificato raggiunge i 90mln di euro: +11% a volume per le banane e +29% per lo zucchero di canna. Presentato oggi a Expo il rapporto annuale di attività in un incontro sulle filiere agricole sostenibili che ha messo a confronto produttori agricoli cubani, Ferrero e Coop Italia.

Milano, 10 giugno 2015. La crescita delle vendite dei prodotti equosolidali Fairtrade in Italia non si arresta, e il valore del venduto nel 2014 raggiunge i 90mln di euro, pari al +17,8% rispetto all’anno precedente. Questi i dati presentati oggi da Fairtrade Italia a Expo 2015, in occasione dell’incontro “Fairtrade energia positiva per le persone e l’ambiente” che si è svolto in mattinata presso il Conference centre.

Una crescita continua. Il prodotto più venduto a volume si conferma la banana, che aumenta del +11% superando le 10.000 tonnellate. Interessante anche il risultato del resto della frutta fresca, in lattina e in purea, il cui volume complessivamente segna +29%. La crescita dello zucchero di canna, sia per il consumo domestico che per l’utilizzo all’interno di prodotti confezionati, si attesta complessivamente al +29%, superando le 2.000 tonnellate (2.177). E grazie al lancio, avvenuto lo scorso anno, dei nuovi programmi commerciali Fairtrade Sourcing Programs, le prospettive di sviluppo di quest’ultimo prodotto sono molto interessanti per il futuro.

La crescita molto positiva del 2014, segue un trend consolidato negli ultimi anni, ed è una prova che le persone sono sempre più attente alla sostenibilità assicurata dalla certificazione, anche nel difficile momento di crisi economica che sta vivendo il nostro paese- ha dichiarato Paolo Pastore, Direttore di Fairtrade Italia – Ad oggi abbiamo 145 aziende in Italia partner del circuito e con 700 items di prodotto diversi siamo presenti in più di 5.000 punti vendita: siamo molti orgogliosi di poter crescere insieme alle nostre aziende e ai nostri produttori”.

Oggi siamo a Expo anche per ricordare il ruolo cruciale che i piccoli produttori agricoli dei Paesi in via di sviluppo svolgono per nutrire il pianeta: sono loro che producono il 75% di tutto il caffè e il 90% di tutto il cacao consumati a livello globale. Ciononostante circa la metà di questi lavoratori soffre la fame ed è intrappolata in uno stato di povertà- ha dichiarato Giuseppe di Francesco, Presidente di Fairtrade Italia – Ogni ragionamento sulla nutrizione globale deve includere anche i lavoratori della terra più svantaggiati, e avere il coraggio di riportare al centro le persone. Questo è l’impegno di Fairtrade per un futuro migliore per tutti”.

Buone pratiche di sostenibilità lungo le filiere. All’evento di presentazione dei dati di vendita sono intervenuti oltre a Presidente e Direttore del Consorzio, anche Elena Meneghetti, product and key account manager in Fairtrade Italia, e due rappresentanti di coltivatori di canna da zucchero di Cuba, Manuel Alonso Padilla, Direttore progetti di ATAC Asociacion tecnicos azucareros de Cuba e Emerio Santana Dominguez, Presidente della UBPC (Unidad Básica de Producción Cooperativa) Pita.

Expo 2015 è un’opportunità eccezionale per esporre i passi avanti nello sviluppo del Fairtrade nelle cooperative di Cuba che producono zucchero di canna biologico” ha dichiarato Padilla. “ È un momento per uno scambio con molte istituzioni che sono interessante al nostro prodotto. Siamo molto contenti e ringraziamo Fairtrade Italia per questa opportunità” ha proseguito Santana Dominguez.

Tra i partner commerciali presenti all’incontro Aldo Cristiano, Director cocoa procurement Ferrero, azienda che nel 2014 ha annunciato un programma di approvvigionamento di 20.000 tonnellate di cacao Fairtrade in un triennio attraverso i Fairtrade Sourcing Programs, come parte integrante della propria strategia di sostenibilità; Ray De Allende, Illovo sugar company, trader di zucchero certificato; Roberto Nanni, Responsabile strategia prodotto Coop, la catena di supermercati con più ampia scelta di prodotto Fairtrade a livello nazionale.

Essere qui per noi è frutto di un impegno tenace e continuo che data da vent’anni– ha commentato Roberto Nanni, responsabile strategia del prodotto Coop – Coop è l’esempio di come di come si possano intrattenere relazioni commerciali equilibrate per prezzo e modalità di pagamento, con i fornitori del Sud del mondo come con i fornitori italiani. Ed è anche un’esperienza di successo; nel tempo non solo abbiamo allargato l’offerta arrivando oggi a includere 40 prodotti etici ma anche triplicando il fatturato nell’arco degli ultimi dieci anni con tutto ciò che ne consegue in termini di ricaduta sulle popolazioni locali”.

L’incontro è stata coordinato da Cristina Lazzati, Direttrice Mark up e GDO Week.

Fonte: http://www.fairtradeitalia.it     10/06/2015

Rinviato il voto sul TTIP

Rinviato l’atteso voto del Parlamento europeo sul Ttip, il Trattato di libero scambio tra Ue e Usa, voto previsto lo scorso 10 giugno. Decisione presa dal Presidente dell’Europarlamento Martin Schulz, alla luce del fatto che sono stati presentati oltre 200 emendamenti e molte richieste di voto disgiunto.

Per maggiori informazioni visita i seguenti link.

http://www.greenpeace.org/italy/it/News1/Rinviato-il-voto-sul-TTIP/ (greenpeace.org)

http://stop-ttip-italia.net/voto-su-ttip-rinviato-teniamoli-docchio/ (stop-ttip-italia.net)

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/06/10/ttip-il-parlamento-ue-rimanda-il-voto-una-doppia-vittoria/1764012/ (ilfattoquotidiano.it)