Due nuovi report sul TTIP: ISDS e Agricoltura

La campagna STOP TTIP Italia e Fairwatch pubblicano due nuovi dossier, relativi all’ISDS ed agli impatti del TTIP sull’Agricoltura.

“PATTO COL DIAVOLO” – Come e perché la clausola di protezione degli investimenti (ISDS) prevista nel TTIP minaccia la capacità di legiferare delle istituzioni, restringendo il perimetro della democrazia.

Dossier a cura della Campagna Stop TTIP Italia – Novembre 2015
Autori: Elena Mazzoni e Francesco Panié (Campagna Stop TTIP Italia) e con il contributo di Monica Di Sisto e Alberto Zoratti (Fairwatch)

Per scaricare il report sull’ISDS: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/nov-2015-isds_patto-col-diavolo-by-campagna-stop-ttip-italia.pdf

Il fattore “C”: rischi e opportunità nel TTIP per il settore agroalimentare europeo

Risposta “carte alla mano” a chi sostiene che nel TTIP non si discute di sicurezza alimentare, e per aprire un dibattito pubblico serio su export, import, indicazioni geografiche e consumatori

Dossier a cura di Fairwatch per la Campagna Stop TTIP Italia – Novembre 2015 Autori: Monica Di Sisto

Per scaricare il report sull’Agricoltura: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/nov-2015_dossier-agricoltura-ttip-fairwatch.pdf

 

Fonte: Stop TTIP Italia – http://stop-ttip-italia.net/

TTIP, clima e green economy: il primo (inquietante) report italiano

Per scaricare il report: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/cop21-e-ttip-fairwatch.pdf

Quali sono gli impatti del TTIP sull’ambiente e il clima? Quali disposizioni garantiscono lo sviluppo sostenibile? Ecco la risposta, che non vi piacerà.

TTIP-clima-e-green-economy-il-primo-report-italiano-4-e1447428988330(Rinnovabili.it) – Una bomba ad orologeria, pronta a mandare in pezzi le proposte per il contrasto ai cambiamenti climatici che potrebbero uscire dalla COP 21. Questo è il TTIP, l’accordo sul commercio e gli investimenti che Stati Uniti e Unione europea stanno negoziando dal 2013. Lo sostiene il primo rapporto italiano sugli impatti ambientali del trattato sull’ambiente e il clima, scritto dalla ONG Fairwatch per la Campagna Stop TTIP Italia. Una ventina di pagine che analizzano e smontano, un pezzo alla volta, tutte le dichiarazioni concilianti della Commissione europea contenute nella proposta (prima filtrata e solo dopo pubblicata da Bruxelles) di un capitolo sullo sviluppo sostenibile nell’accordo. Il rapporto chiarisce subito che «non esiste alcun meccanismo vincolante che imponga ai Paesi il rispetto dei diritti dei lavoratori e dei vincoli ambientali», a differenza dei meccanismi di tutela degli investitori privati, «che prevedono il ricorso ad arbitrati con la possibilità per aziende private di chiedere compensazione economica in caso di politiche contrarie alle loro aspettative di profitto sugli investimenti». Fairwatch sottolinea che non vi sono appigli, nel testo proposto dalla Commissione europea, che permettano di individuare un reale impegno nell’applicare e implementare le disposizioni contenute negli accordi internazionali sull’ambiente: dal protocollo di Kyoto a quello di Montreal, fino alla Convenzione sulla biodiversità (CBD).

«Come tutto ciò possa risultare in una proposta ambiziosa sulla sostenibilità e come questo possa garantire un aumento degli standard di tutela e di protezione sociale e ambientale è impossibile capirlo. Soprattutto in un sistema di valori dove viene garantito il primato della libertà del mercato, della tutela degli investitori, dell’importanza della competizione internazionale rispetto alle economie locali».

In pratica, il TTIP trasformerebbe in carta straccia questi importanti patti multilaterali improntati allo sviluppo sostenibile. Eppure questo concetto, nato nel 1987 in seno alla Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo (WCED) è diventato parte integrante dell’architettura istituzionale dell’Unione europea con la firma del Trattato di Amsterdam (1997). La stessa commissaria europea al Commercio, Cecilia Malmström, ha dichiarato che «vogliamo utilizzare li accordi commerciali per fissare standard ambiziosi e vincolanti, per affrontare sfide globali come la protezione dell’ambiente e dei diritti del lavoro in un mondo globalizzato».

Tuttavia, incrociando i testi negoziali (textual proposals) resi pubblici dalle fughe di notizie con i position papers (documenti in cui la Commissione spiega la propria posizione nella trattativa), il rapporto evidenzia diverse incongruenze. L’ottimismo che traspare dai documenti di posizionamento sul rispetto degli obiettivi sul clima non trova riscontro nella textual proposal. Nulla costringe le parti a vincolare il commercio alla tutela della biodiversità o a specifici limiti di inquinamento: non esiste un tribunale legittimato a sospendere il TTIP in caso di violazioni. Nemmeno presa in considerazione la richiesta del Parlamento europeo di tutelare i governi che legiferano in favore del clima dalle denunce delle multinazionali. Si possono dunque ripetere situazioni come quella che, all’interno dell’accordo NAFTA tra USA, Messico e Canada, potrebbe costringere la provincia del Quebec a pagare un risarcimento di 250 milioni per aver vietato il fracking nel fiume San Lorenzo alla Lone Pine Resources.

Per scaricare il report: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/cop21-e-ttip-fairwatch.pdf

L’Università del Colorado restituisce a Coca-Cola un milione di dollari. Ultimo atto della polemica scoppiata in agosto sui finanziamenti occulti

Coca-Cola ha finanziato occultamente scienziati per spostare la colpa dell’obesità dalla cattiva alimentazione allo scarso esercizio fisico.

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La University of Colorado School of Medicine ha annunciato la restituzione di un milione di dollari ricevuti nel 2014 da Coca-Cola per creare il Global Energy Balance Network, un’organizzazione non profit di scienziati che sollecitava le persone all’attività fisica, minimizzando il legame tra bevande analcoliche e obesità. Secondo l’Università, la fonte del finanziamento ha distolto l’attenzione dall’obiettivo che doveva essere perseguito e dagli sforzi che l’Università sta facendo. Coca-Cola ha dichiarato che darà il milione di dollari restituito dall’Università del Colorado all’organizzazione Boys & Girls Clubs of America.

Questa notizia rappresenta l’ultimo sviluppo di una vicenda iniziata in agosto, quando un articolo del New York Times aveva svelato il finanziamento occulto di Coca-Cola al Global Energy Balance Network che non figurava nel sito dell’organizzazione (le cronache ricordano di un video dove il vice-presidente  Steven N. Blair in cui invitava a concentrarsi solo sull’attività fisica, negando l’importanza della dieta per combattere l’obesità).

Un video negava l’importanza della dieta per combattere l’obesità
La polemica che ne era seguita aveva indotto l’amministratore delegato di Coca-Cola, Kuhtar Kent, a promettere maggiore trasparenza sui finanziamenti che vengono concessi a organizzazioni ed esperti accademici nel campo della salute. E così, in ottobre, Coca-Cola ha pubblicato i destinatari statunitensi di 120 milioni di dollari, a partire dal 2010. Dopo che i finanziamenti sono diventati pubblici, l’Academy of Nutrition and Dietetics, la più grande organizzazioni di nutrizionisti degli Usa, ha comunicato che la sponsorizzazione di Coca-Cola terminerà alla fine dell’anno, così come farà l’Academy of Pediatrics, perché non condividono più gli stessi valori.

Si tratta dell’ennesimo episodio sul conflitto di interessi che anche in Italia rappresenta un grosso problema, come abbiamo evidenziato in diversi articoli chiamando in causa Andrea Ghiselli del Crea e altri liberi professionisti come Eugenio Del Toma.

Per approfondire:

Coca-Cola ha finanziato occultamente scienziati per spostare la colpa dell’obesità dalla cattiva alimentazione allo scarso esercizio fisico. In rete i finanziamenti

Fonte: ilfattoalimentare.it 13-11-2015

Nuovi trend alimentari negli Usa, e le multinazionali cercano di adeguarsi

Le vendite di prodotti confezionati e pronti sono in calo costante, non solo nella grandi città a in modo uniforme in tutto il Paese. Le multinazionali rispondono a questo cambiamento proponendo alimenti nuovi, che seguano questi trend: tagliano quindi gli zuccheri aggiunti, gli aromi artificiali, offrono versioni light dei tradizionali prodotti oppure optano per l’integrale.

Negli Stati Uniti i consumatori stanno drasticamente cambiando le abitudini alimentari. Le vendite di prodotti confezionati e pronti sono in calo costante, non solo nella grandi città a in modo uniforme in tutto il Paese. La conseguenza? Anche gli acquisti nei supermercati stanno virando in altre direzioni: i surgelati hanno subito un calo del 12% dal 2007 al 2013, il consumo di bevande a base di soda è sceso del 25% a partire dal 1998 così come quello di cereali zuccherati per la colazione sempre del 25% a partire dal 2000.

Questo perché i consumatori sono più informati, conoscono gli ingredienti che vengono aggiunti agli alimenti industriali per renderli più appetibili sia a livello estetico che in fatto di sapore. Per questo i prodotti confezionati, per quanto comodi e gustosi sono sempre meno acquistati: i cittadini sanno che per la salute non sono la soluzione migliore. Le multinazionali rispondono a questo cambiamento proponendo alimenti nuovi, che seguano questi trend: tagliano quindi gli zuccheri aggiunti, gli aromi artificiali, offrono versioni light dei tradizionali prodotti oppure optano per l’integrale. Tuttavia, come sottolineano gli autori di un articolo del New York Times “A Seismic Shift in How People Eat”, tutto ciò non sarà sufficiente a salvarli.

Probabilmente la soluzione è la riduzione drastica dello zucchero, la riduzione degli ingredienti e la selezione di prodotti locali e biologici, soprattutto più frutta, verdura e alimenti integrali sviluppando maggiori offerte fresche. Si tratta quindi, per le grandi multinazionali, di modificare la catena di approvvigionamento, ristruttura, cercare nuove soluzione: investimenti notevoli, che rappresentano però l’unica soluzione per salvarsi.

TAZREEN: Le multinazionali non pagano

Un contributo diretto al fondo di risarcimento per i familiari delle vittime e per i sopravvissuti dell’incendio alla fabbrica Tazreen di Dhaka in Bangladesh. È la richiesta avanzata dalla Clean Clothes Campaign,presente in Italia con la sua sezione Campagna Abiti Puliti, e dal Labor Rights Forum ai clienti internazionali della fabbrica come l’americana

Laboratorio tessile bruciato in un incendio. Fonte: rapporto H&M in Bangladesh, Clean Clothes Campaign, ottobre 2015

Laboratorio tessile bruciato in un incendio. Fonte: rapporto H&M in Bangladesh, Clean Clothes Campaign, ottobre 2015

Walmart, la sezione spagnola de El Corte Ingles, il distributore tedesco KIK, C&A e Sean John’s Enyce brand, oltre ad altri marchi collegati come Edinburgh Woollen Mill (UK), KarlRieker (Germania), Teddy Smith (Francia), le americane Disney, Sears, Dickies e Delta Apparel e l’italiana Piazza Italia.

L’appello, ribadito con una nota diffusa ieri, arriva alla vigilia del terzo anniversario del disastro (24 novembre 2012) costato la vita a 112 persone. “Quando divampò l’incendio, i lavoratori restarono intrappolati nella fabbrica: le uscite erano bloccate e l’unico modo per scappare era buttarsi dalle finestre dei piani alti” ricordano i promotori della campagna. “Più di cento lavoratori rimasero feriti saltando da quelle finestre al terzo e quarto piano, con lesioni alla schiena e alla testa che hanno causato molto dolore”.

Un accordo per coprire la perdita di reddito e le spese mediche è stato siglato lo scorso anno da IndustriALL Global Union, la Clean Clothes Campaign, C&A e la C&A Foundation. L’intesa, ricorda la nota, “ha portato alla creazione del Tazreen Claims Administration Trust, che sovrintende il processo per le richieste di rimborso, collabora con le organizzazioni che rappresentano le famiglie e raccoglie fondi per effettuare i pagamenti. Le famiglie degli operai morti nel rogo hanno cominciato a registrare le loro richieste e oggi il Trust ha lanciato un nuovo sito web (http://tazreenclaimstrust.org), che fornisce informazioni sul processo e dettagli su come possono essere effettuate le donazioni”.

Gli attivisti hanno chiesto da tempo ai marchi con un fatturato di oltre 1 milione di dollari di versare almeno 100 mila dollari nel Trust Fund. “C&A e Li & Fung (che si riforniva per conto di Sean Paul) si sono già impegnate ad effettuare versamenti” ricorda la nota. “La tedesca KiK, attualmente coinvolta in una controversia per quanto riguarda il suo rifiuto di negoziare il risarcimento delle vittime dell’incendio alla Ali Enterprises, ha ora accettato di effettuare un versamento”.

Ma l’impegno, al momento, non è stato condiviso da tutti. “Il più grande cliente della Tazreen, Walmart, non ha ancora corrisposto un centesimo per le vittime e i loro familiari. Eppure nel 2014 aveva dichiarato pubblicamente la volontà di voler contribuire con 3 milioni di dollari attraverso la BRAC USA per le vittime del Rana Plaza e di altre tragedie dell’industria tessile del Bangladesh. 1 milione di dollari lo ha versato nel Rana Plaza Trust Fund, 92 mila dollari li ha forniti per le cure mediche. Cosa intende fare con il restante 1,1 milione di dollari promesso?”. Ad oggi, osservano ancora gli attivisti, “anche le intenzioni della sezione spagnola del El Corte Ingles non sono chiare, visto che, pur avendo partecipato al Comitato iniziale incaricato di portare avanti il processo sul Rana Plaza, non si è ancora impegnato per nulla sul caso Tazreen”.

Proprio i mancati contributi, unitamente alla scarsa attività di prevenzione e controllo sulle condizioni dei lavoratori della catena di fornitura, evidenzierebbero secondo gli attivisti il persistente problema di una sostanziale carenza regolamentare. Un argomento, quest’ultimo, che sarà al centro dell’incontro del prossimo 21 novembre a Torino (qui il programma) quando, nella cornice dell’ex Birrificio Metzger (via Bogetto 4/g, inizio del dibattito alle ore 10:30), attivisti, esperti del settore e istituzioni discuteranno sulle strategie e gli strumenti utili “per proteggere in maniera più efficiente ed efficace i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nel mondo”.

Fonte: valori.it – 18-11-2015

http://www.valori.it/economia-solidale/tazreen-e-le-multinazionali-che-non-pagano-10758.html

Per chi bruciano le foreste indonesiane

I produttori di olio di palma alimentano gli incendi del Borneo

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Greenpeace ha condotto un’inchiesta su tre delle piantagioni del Kalimantan (Borneo indonesiano), dove si sono verificati alcuni degli incendi all’origine della grande nube gialla che ha invaso i cieli del sudest asiatico, e che in molte regioni non è ancora dissolta.

Asia, fra i dannati della nube gialla

http://www.repubblica.it/ambiente/2015/10/28/news/asia_fra_i_dannati_della_nube_gialla-126087228/
Riportiamo il risultato dell’indagine e l’intero comunicato della sezione italiana dell’organizzazione ambientalista, secondo la quale “questi incendi sono stati provocati da ​compagnie produttrici di olio di palma considerato ecosostenibile. in particolare “le piantagioni – scrive Greenpeace – sono di proprietà delle compagnie indonesiane IOI Group, Bumitama Agri Ltd e Alas Kusuma group. Sono aziende che fanno parte di importanti enti di certificazione della sostenibilità, tra cui la Tavola Rotonda per l’Olio di Palma Sostenibile (RSPO) e il Forest Stewardship Council (FSC)”.
E’ a queste istituzioni che Greenpeace si è appellata per “espellere le aziende complici del dilagare degli incendi che distruggono le foreste torbiere e soffocano il Sud-est asiatico», come ha scritto Martina Borghi responsabile della campagna in Italia. L’olio di palma ricavato da queste piantagioni viene immesso sul mercato da commercianti di materie prime come Wilmar International, IOI Loders Croklaan e Golden Agri Resources – precisa il gruppo ambientalista –  e arriva anche nei prodotti di quei marchi internazionali che hanno adottato politiche di  “No deforestazione”.

«Quanto accaduto indica che purtroppo i progressi fatti finora dalle singole aziende che acquistano olio di palma sostenibile non sono sufficienti a evitare che i loro fornitori distruggano le foreste» – continua Borghi – «Per risolvere il problema alla radice è indispensabile che le compagnie che acquistano e utilizzano materie prime indonesiane lavorino insieme per far rispettare un impegno globale del settore contro l’uso di olio di palma da deforestazione».

“Vista la scarsa affidabilità degli schemi RSPO nel 2014 è nato il Palm Oil Innovations Group (POIG), con l’obiettivo di spezzare il legame tra la produzione di olio di palma e la deforestazione”. Questo gruppo, che riunisce compagnie che producono e utilizzano olio di palma e ONG ambientaliste, secondo Greenpeace “mira a rafforzare e rendere più ambiziosi gli standard dell’RSPO, concentrandosi su tre tematiche: responsabilità ambientale, partnership con comunità locali e integrità  aziendale e di prodotto. Di recente hanno aderito a questa iniziativa marchi come Ferrero, Danone, Stephenson e Boulder, così come il gigante indonesiano dell’olio di palma Musim Mas Group”.

Il frutto della palma da olio
Greenpeace ricorda che poche settimane fa, il presidente indonesiano Joko Widodo ha promesso di bandire ogni ulteriore sviluppo delle attività produttive che vadano a discapito delle torbiere, anche all’interno di concessioni già esistenti”. Ma “nonostante da diversi anni sia in vigore una moratoria sulle nuove concessioni di torbiere, questa sospensione non viene applicata con rigore dai governi locali e nei distretti, dove l’assegnazione delle terre è spesso legata alla corruzione. Una delle piantagioni esaminate da Greenpeace è infatti stata concessa nonostante il terreno in questione sia interessato dalla moratoria”.

«Dal 1990 ad oggi, l’Indonesia ha perso un quarto delle sue foreste a causa dell’espansione indiscriminata delle piantagioni di palma da olio e cellulosa. Oggi tutti parlano della necessità di porre fine alla deforestazione, ma abbiamo bisogno di azioni urgenti, non solo di parole», ha concluso Borghi.

Fonte: http://www.repubblica.it/

21/11/2015

Armi, Made in Italy che vola: “Export 30 milioni in aree in guerra del Nord Africa”

Secondo l’ultimo rapporto dell’istituto “Archivio Disarmo” dal titolo “Armi leggere, guerre pesanti”, nel 2014 le esportazioni italiane di pistole, fucili e carabine sono state pari a 453 milioni, lievemente inferiori al 2013, ma superiori alla media del decennio. Proprio nel momento in cui si prepara un intervento armato in Libia di cui l’Italia dovrebbe assumere il comando, l’eventuale coalizione internazionale potrebbe trovarsi puntati contro armamenti fabbricati nella Penisola

Fonte: Il Fatto Quotidiano – 23 maggio 2015

Dal profondo Nord della Val Trompia, terra di fabbriche di armi e di leghisti, non si è mai interrotto il flusso di pistole, fucili e proiettili verso quelle parti dell’Africa che ribollono di tensioni e conflitti e da cui fuggono a decine di migliaia i disperati che cercano di scampare alle carneficine. Anche l’anno passato, con la Libiadilaniata dalle faide tra clan e senza più un potere centrale riconoscibile, e il resto del Maghreb, dall’Algeria alla Tunisiaall’Egitto, sempre sul punto di esplodere, sono andati assai bene gli affari delle imprese italiane, Beretta in testa. Nel complesso sono ammontate a circa 30 milioni di euro le esportazioni di pistole, fucili, carabine e simili verso quelle regioni. Insieme al Nord Africa anche il Medio Oriente, dall’Arabia Saudita alla Siria, compresi Iran e Iraq sotto l’attacco degli assassini del Califfato dell’Isis, ha ricevuto dall’Italia un buon numero di pistole e fucili.

Questi dati preoccupanti emergono da un corposo rapporto dell’istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo dal titolo Armi leggere, guerre pesanti curato da Antonio Lamanna e da Maurizio Simoncelli. I dati utilizzati sono quelli ufficiali contenuti nel database dell’Istat. Le conclusioni fanno riflettere: nel 2014 le esportazioni italiane di questi micidiali strumenti sono state pari a 453 milioni, leggermente inferiori a quelle dell’anno precedente, ma superiori alla media delle esportazioni del decennio. In sostanza dallo studio viene fuori che in questa lunga fase di crisi soprattutto delle esportazioni, l’industria italiana delle armi è una delle poche a reggere bene la botta senza subire sostanziali effetti recessivi.

La produzione e l’esportazione di armi ai quattro angoli del pianeta contribuisce alla ricchezza della Val Trompia (provincia di Brescia) e garantisce il lavoro a migliaia di operai di quella zona. Il rovescio della medaglia, però, è che quei prodotti vengono venduti con assoluta disinvoltura (anche se ovviamente nel sostanziale rispetto delle leggi e dei trattati internazionali) pure a paesi dove infuriano le guerre e a quelli segnalati da diverse organizzazioni internazionali come Amnesty International, Human Right e Escola de Pau, per le reiterate violazioni dei diritti umanie per situazioni di tensione o di conflitto armato. Nazioni come l’Ucraina o la Russia, la Colombia e il Messico. In pratica è ragionevole supporre che le armi italiane contribuiscano a rendere ancora più aspri e sanguinosi i conflitti in atto.

Nel caso del Nord Africa c’è un di più. Proprio nel momento in cui a livello internazionale si prepara un intervento armato in Libia di cui l’Italia dovrebbe assumere formalmente il comando con l’intento di interrompere il flusso di migranti organizzato da bande criminali, lo studio di Archivio disarmo attesta che dalla stessa Italia partono a decine di migliaia le armi destinate a quei paesi. Ordigni che con ogni probabilità saranno usati anche e forse soprattutto da quei mercanti di morte contro i quali vengono inviate le nostre missioni militari. C’è il rischio in pratica che da una parte e dall’altra si sparino proprio con le stesse armi made in Italy.

Al primo posto tra i paesi importatori di armi leggere italiane ci sono gli Stati Uniti con il 42% del totale. In Usa le armi italiane sono assai apprezzate, soprattutto dopo che a metà degli anni 80 del secolo passato l’esercito americano decise di adottare per i propri soldati proprio una pistola Beretta, la famosa M9, rimasta in dotazione all’Us Army fino alla fine dell’anno passato. Negli Stati Uniti il possesso di armi per uso di difesa personale è un diritto garantito dalla Costituzione oculatamente protetto dalla Nra (National Rifle Association), ritenuta una delle lobby americane più potenti. Sull’altro piatto della bilancia c’è il fatto che proprio la diffusione di massa di ordigni micidiali è ritenuta la causa principale del numero abnorme di assassinii e di conflitti a fuoco. C’è poi il pericolo che l’enorme quantità di armi in circolazione amplifichi gli effetti dei ricorrenti momenti di tensione, come è successo di recente con il rinfocolarsi dei conflitti razziali.

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Articolo originale al link http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/23/armi-made-in-italy-che-vola-export-per-30-milioni-in-aree-in-guerra-del-nord-africa/1710009/

Oxfam: “l’UE non fa abbastanza contro gli abusi fiscali che generano disuguaglianza e nuovi poveri”

In un nuovo dossier Oxfam denuncia come resti ancora molto da fare contro gli abusi fiscali delle multinazionali. A farne le spese le casse degli Stati, alleggerite di 240 miliardi di dollari l’anno, e i cittadini con drastici tagli dei servizi pubblici.
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A un anno dallo scandalo LuxLeaks, che ha gettato luce sui trattamenti fiscali concessi tra il 2002 e il 2010 dalle autorità fiscali lussemburghesi a più di 300 multinazionali del calibro di Pepsi, Ikea, Deutsche Bank e Apple, Oxfam denuncia in un nuovo dossier quanto resti da fare per combattere l’elusione fiscale e la pianificazione fiscale aggressiva delle multinazionali che colpisce le casse degli Stati e i servizi offerti ai cittadini, generando nuovi poveri e un aumento della disuguaglianza economica e sociale. Il 5 novembre 2014, l’inchiesta condotta da un pool internazionale di giornalisti investigativi (ICIJ – The International Consortium of Investigative Journalists) e pubblicata dai maggiori quotidiani del mondo, aveva infatti svelato gli accordi fiscali ottenuti con l’assistenza di un colosso mondiale dei servizi professionali come PricewaterhouseCoopers (PwC) e siglati in totale segretezza. Concessioni fiscali che avallavano il trasferimento di utili, realizzati altrove dalle compagnie, in una giurisdizione a tassazione agevolata come il Lussemburgo, permettendo alle multinazionali di ‘ottimizzare’ – alias alleggerire – il proprio carico fiscale su scala globale.

Leggi l’articolo su oxfamitalia.org e leggi il dossier

Quanto è sostenibile la tua scatoletta di tonno preferita?

 

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Abbiamo valutato gli 11 marchi di tonno più diffusi sui nostri scaffali, che rappresentano circa l’80% del mercato italiano, in base alle loro politiche di sostenibilità e equità, le specie catturate, i metodi di pesca usati e le informazioni che forniscono ai consumatori.

Dalla scorsa edizione tanti dimostrano di lavorare per una pesca sostenibile e per la piena trasparenza, ma c’è anche chi continua ad essere completamente dipendente da una pesca distruttiva.

Prima di mettere una scatoletta nel tuo carrello della spesa assicurati di sceglierne una davvero sostenibile!

greenpeace.it

Guarda la classifica e firma per chiedere maggiore sostenibilità a MareBlu

 

Di seguito un articolo da Corriere.it

ROMA – «Cinque anni fa, quando abbiamo iniziato questa campagna, quasi nessuna azienda aveva adottato criteri di sostenibilità nella scelta del tonno da mettere nelle scatolette. Oggi quasi tutti i marchi che abbiamo analizzato hanno politiche di acquisto scritte nero su bianco». E’ con ottimismo che Giorgia Monti commenta i risultati della classifica “Rompiscatole” di Greenpeace. Una campagna, giunta quest’anno alla sua quarta edizione, nata per valutare la sostenibilità del tonno in scatola venduto in Italia: circa 144 mila tonnellate per un giro di affari che supera il miliardo di euro.

A due anni dall’ultima classifica, le aziende che si stanno impegnando per contrastare la pesca distruttiva salgono di posizione, mentre chi non mantiene le promesse finisce in fondo. Per la prima volta quest’anno conquista la fascia verde un marchio italiano, AsdoMar. Un riconoscimento ottenuto grazie all’attenzione dedicata dall’azienda alle tecniche di pesca sostenibile, come la pesca a canna usata nel 30% delle produzioni. Seguono poi Esselunga e Conad, che scalano la fascia arancione grazie ai progressi nelle politiche di acquisto per evitare metodi di pesca distruttivi, anche se dovranno esigere dai fornitori informazioni più dettagliate sui metodi di pesca. Resta in quarta posizione RioMare che, a detta di Greenpeace, sta lavorando per aumentare la produzione di pesca sostenibile, anche se molte delle scatolette vendute contengono ancora tonno pescato con metodi distruttivi.

Declassato in fascia rossa Mareblu che, secondo l’organizzazione, sembra non voglia proprio darsi da fare. «Molte aziende – ha spiegato Monti – hanno ormai capito che sempre più consumatori privilegiano prodotti che non danneggiano l’ambiente. Mareblu continua invece a comportarsi in maniera irresponsabile tradendo la nostra fiducia. Deve impegnarsi per rispettare gli impegni presi per garantire una pesca equa nel completo rispetto dei diritti umani».

fonte: corriere.it 27-10-2015

Guarda la classifica e firma per chiedere maggiore sostenibilità a MareBlu