I PICCOLI SCHIAVI DEL BANGLADESH. Ecco i bambini che fanno i nostri jeans. Per 28 centesimi di euro al giorno

Toccante e sconcertante il reportage di Rai News sulle condizioni di vita dei bambini in Bangladesh, costretti a cucire jeans per 18 ore al giorno.

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RaiNews 01 DICEMBRE 2015. Queste fotografie raccontano la triste realtà di migliaia di bambini in Bangladesh, costretti a cucire jeans per 18 ore e a 20 pence (poco più di 28 centesimi di euro) al giorno. Nonostante le continue campagne di informazione e la randomica indignazione internazionale, un fotografo ha rivelato sia la criminale mancanza di controlli e l’esistenza di fabbriche clandestine tuttora ignorata, sia il quotidiano allucinante dei bambini che ci lavorano. Si tratta di squallidi laboratori non registrati, nei quali si confezionano pantaloni per gli occidentali.

Guarda le altre immagini: http://www.rainews.it/dl/rainews/media/Bangladesh-Ecco-i-bambini-che-fanno-i-nostri-jeans-Per-20-pence-al-giorno-085ea1ce-8f92-473c-824c-d7365953c31d.html

Il Parlamento europeo non autorizza il MAIS geneticamente modificato della MONSANTO

La multinazionale avrebbe diffuso prodotti tossiciMaistesto

Il Parlamento europeo, riunito in seduta plenaria, ha detto no alla decisione della Commissione europea di autorizzare l’uso del mais geneticamente modificato della Monsanto, la multinazionale produttrice non solo di sementi OGM (organismo geneticamente modificato,ndr) ma anche del discusso erbicida Roundup: ci sono stati 403 voti favorevoli e 238 contrari. La motivazione risiede nel fatto di preservare alti livelli di salute e di tutelare l’ambiente all’interno dei suoi confini. Il problema rimane nelle modalità del processo di autorizzazione che danno adito sempre a nuove revisioni e lasciano spazi troppo ampi di manovra alle lobby che tutelano gli interessi delle multinazionali e consentono di ignorare chi vuole tutelare invece la salute e gli interessi dei cittadini. Esistono molte organizzazioni che sottolineano come Monsanto negli ultimi decenni si sia occupata di realizzare prodotti altamente tossici che hanno danneggiato l’ambiente e causato la morte di migliaia di persone.
LE SOSTANZE: tra le sostanze tossiche ci sono la PCB, sostanza che mette in pericolo gli animali e la fertilità umana: la 2,4,5-T, componente utilizzato per la produzione dell’Agente Arancio durante la guerra del Vietnam e che continua a causare tumori e malformazioni alla nascita; vi sono inoltre ilRoundup, l’erbicida più utilizzato nel mondo, fonte di scandalo ambientale e grave minaccia per la salute. Si tratta di un prodotto a base di glifosato, una sostanza ora riconosciuta dall’OMS(organizzazione mondiale della sanità,ndr) come probabile cancerogeno umano. Ultimo, il lasso,erbicida attualmente proibito in Europa.

23-12-2015

fonte: IlMeteo.it

“La Pubblicità di Natale è razzista”. Coca Cola costretta a ritirare lo spot in Messico

La pubblicità trasmessa in Messico rimossa da YouTube dopo le polemiche

Bufera sulla pubblicità di Natale della Coca Cola trasmessa in Messico.

Il video è stato rimosso da YouTube dopo che lo spot è stato accusato di razzismo. Nel video un gruppo di giovani arriva in una comunità indigena nello stato di Oxaca per fare l’albero di Natale e per distribuire la bevanda. In rete ci sono state proteste: secondo molti lo spot lede la dignità delle comunità native messicane. Alcune associazioni di consumatori hanno invece fatto notare come l’obesità sia un grosso problema tra quelle popolazioni e hanno quindi giudicato poco opportuna la trasmissione dello spot .

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Approfondimento: Coca-Cola ritira uno spot natalizio accusato di essere discriminatorio e dannoso per la salute delle popolazioni indigene in Messico

I laboratori per l’evento dei 20 anni del Movimento Gocce di Giustizia

Movimento Gocce di Giustizia: 20 anni di impegno per una cultura di giustizia

L’evento del 5 Dicembre per celebrare i 20 anni di impegno del Movimento Gocce di Giustizia inizia alle ore 15:00 con la proposta dei seguenti laboratori animati da varie associazioni:

1. Movimento Gocce di Giustizia: la boicottega per educare al consumo critico, dove si può fare un test per capire il proprio profilo di consumatori;
2. Commissione Nuovi Stili di Vita della diocesi di Padova: i semi dimenticati per conoscere la biodiversità di madre terra e come valorizzare i semi dimenticati;
3. Cooperativa Maninpasta: autoproduzione del pane;
4. Movimento della decrescita felice (gruppo Padova): autoproduzione del sapone;
5. Gruppo Metodo giovani: azioni interattive sulla problematica giovanile e sull’economia di giustizia
6. Associazione Via Firenze 21: ciclo del forno (simbolismo spirituale del forno)
7. Rete Nulla avviene per caso : come costruire un rete a servizio del sociale

L’evento continua con il convegno alle ore 17:00 e termina con il concerto serale.

Programma:gocce

15.00 – 17.00: apertura di laboratori interattivi con le associazioni presenti

17.00-19.00: convegno
presentazione dei 20 anni di impegno (Adriano Sella: il promotore del movimento)
relazione di Maurizio Pallante (fondatore del movimento della decrescita felice)
testimonianze

19.30: buffet con prodotti bio, a km0, equo e solidali

20.30- 22.30: concerto di giustizia con i gruppi musicali Voci Contro, IreblA e Florio Pozza, con la presenza del cantautore Davide Peron

Guarda la Locandina

 

Due nuovi report sul TTIP: ISDS e Agricoltura

La campagna STOP TTIP Italia e Fairwatch pubblicano due nuovi dossier, relativi all’ISDS ed agli impatti del TTIP sull’Agricoltura.

“PATTO COL DIAVOLO” – Come e perché la clausola di protezione degli investimenti (ISDS) prevista nel TTIP minaccia la capacità di legiferare delle istituzioni, restringendo il perimetro della democrazia.

Dossier a cura della Campagna Stop TTIP Italia – Novembre 2015
Autori: Elena Mazzoni e Francesco Panié (Campagna Stop TTIP Italia) e con il contributo di Monica Di Sisto e Alberto Zoratti (Fairwatch)

Per scaricare il report sull’ISDS: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/nov-2015-isds_patto-col-diavolo-by-campagna-stop-ttip-italia.pdf

Il fattore “C”: rischi e opportunità nel TTIP per il settore agroalimentare europeo

Risposta “carte alla mano” a chi sostiene che nel TTIP non si discute di sicurezza alimentare, e per aprire un dibattito pubblico serio su export, import, indicazioni geografiche e consumatori

Dossier a cura di Fairwatch per la Campagna Stop TTIP Italia – Novembre 2015 Autori: Monica Di Sisto

Per scaricare il report sull’Agricoltura: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/nov-2015_dossier-agricoltura-ttip-fairwatch.pdf

 

Fonte: Stop TTIP Italia – http://stop-ttip-italia.net/

TTIP, clima e green economy: il primo (inquietante) report italiano

Per scaricare il report: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/cop21-e-ttip-fairwatch.pdf

Quali sono gli impatti del TTIP sull’ambiente e il clima? Quali disposizioni garantiscono lo sviluppo sostenibile? Ecco la risposta, che non vi piacerà.

TTIP-clima-e-green-economy-il-primo-report-italiano-4-e1447428988330(Rinnovabili.it) – Una bomba ad orologeria, pronta a mandare in pezzi le proposte per il contrasto ai cambiamenti climatici che potrebbero uscire dalla COP 21. Questo è il TTIP, l’accordo sul commercio e gli investimenti che Stati Uniti e Unione europea stanno negoziando dal 2013. Lo sostiene il primo rapporto italiano sugli impatti ambientali del trattato sull’ambiente e il clima, scritto dalla ONG Fairwatch per la Campagna Stop TTIP Italia. Una ventina di pagine che analizzano e smontano, un pezzo alla volta, tutte le dichiarazioni concilianti della Commissione europea contenute nella proposta (prima filtrata e solo dopo pubblicata da Bruxelles) di un capitolo sullo sviluppo sostenibile nell’accordo. Il rapporto chiarisce subito che «non esiste alcun meccanismo vincolante che imponga ai Paesi il rispetto dei diritti dei lavoratori e dei vincoli ambientali», a differenza dei meccanismi di tutela degli investitori privati, «che prevedono il ricorso ad arbitrati con la possibilità per aziende private di chiedere compensazione economica in caso di politiche contrarie alle loro aspettative di profitto sugli investimenti». Fairwatch sottolinea che non vi sono appigli, nel testo proposto dalla Commissione europea, che permettano di individuare un reale impegno nell’applicare e implementare le disposizioni contenute negli accordi internazionali sull’ambiente: dal protocollo di Kyoto a quello di Montreal, fino alla Convenzione sulla biodiversità (CBD).

«Come tutto ciò possa risultare in una proposta ambiziosa sulla sostenibilità e come questo possa garantire un aumento degli standard di tutela e di protezione sociale e ambientale è impossibile capirlo. Soprattutto in un sistema di valori dove viene garantito il primato della libertà del mercato, della tutela degli investitori, dell’importanza della competizione internazionale rispetto alle economie locali».

In pratica, il TTIP trasformerebbe in carta straccia questi importanti patti multilaterali improntati allo sviluppo sostenibile. Eppure questo concetto, nato nel 1987 in seno alla Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo (WCED) è diventato parte integrante dell’architettura istituzionale dell’Unione europea con la firma del Trattato di Amsterdam (1997). La stessa commissaria europea al Commercio, Cecilia Malmström, ha dichiarato che «vogliamo utilizzare li accordi commerciali per fissare standard ambiziosi e vincolanti, per affrontare sfide globali come la protezione dell’ambiente e dei diritti del lavoro in un mondo globalizzato».

Tuttavia, incrociando i testi negoziali (textual proposals) resi pubblici dalle fughe di notizie con i position papers (documenti in cui la Commissione spiega la propria posizione nella trattativa), il rapporto evidenzia diverse incongruenze. L’ottimismo che traspare dai documenti di posizionamento sul rispetto degli obiettivi sul clima non trova riscontro nella textual proposal. Nulla costringe le parti a vincolare il commercio alla tutela della biodiversità o a specifici limiti di inquinamento: non esiste un tribunale legittimato a sospendere il TTIP in caso di violazioni. Nemmeno presa in considerazione la richiesta del Parlamento europeo di tutelare i governi che legiferano in favore del clima dalle denunce delle multinazionali. Si possono dunque ripetere situazioni come quella che, all’interno dell’accordo NAFTA tra USA, Messico e Canada, potrebbe costringere la provincia del Quebec a pagare un risarcimento di 250 milioni per aver vietato il fracking nel fiume San Lorenzo alla Lone Pine Resources.

Per scaricare il report: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/cop21-e-ttip-fairwatch.pdf

L’Università del Colorado restituisce a Coca-Cola un milione di dollari. Ultimo atto della polemica scoppiata in agosto sui finanziamenti occulti

Coca-Cola ha finanziato occultamente scienziati per spostare la colpa dell’obesità dalla cattiva alimentazione allo scarso esercizio fisico.

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La University of Colorado School of Medicine ha annunciato la restituzione di un milione di dollari ricevuti nel 2014 da Coca-Cola per creare il Global Energy Balance Network, un’organizzazione non profit di scienziati che sollecitava le persone all’attività fisica, minimizzando il legame tra bevande analcoliche e obesità. Secondo l’Università, la fonte del finanziamento ha distolto l’attenzione dall’obiettivo che doveva essere perseguito e dagli sforzi che l’Università sta facendo. Coca-Cola ha dichiarato che darà il milione di dollari restituito dall’Università del Colorado all’organizzazione Boys & Girls Clubs of America.

Questa notizia rappresenta l’ultimo sviluppo di una vicenda iniziata in agosto, quando un articolo del New York Times aveva svelato il finanziamento occulto di Coca-Cola al Global Energy Balance Network che non figurava nel sito dell’organizzazione (le cronache ricordano di un video dove il vice-presidente  Steven N. Blair in cui invitava a concentrarsi solo sull’attività fisica, negando l’importanza della dieta per combattere l’obesità).

Un video negava l’importanza della dieta per combattere l’obesità
La polemica che ne era seguita aveva indotto l’amministratore delegato di Coca-Cola, Kuhtar Kent, a promettere maggiore trasparenza sui finanziamenti che vengono concessi a organizzazioni ed esperti accademici nel campo della salute. E così, in ottobre, Coca-Cola ha pubblicato i destinatari statunitensi di 120 milioni di dollari, a partire dal 2010. Dopo che i finanziamenti sono diventati pubblici, l’Academy of Nutrition and Dietetics, la più grande organizzazioni di nutrizionisti degli Usa, ha comunicato che la sponsorizzazione di Coca-Cola terminerà alla fine dell’anno, così come farà l’Academy of Pediatrics, perché non condividono più gli stessi valori.

Si tratta dell’ennesimo episodio sul conflitto di interessi che anche in Italia rappresenta un grosso problema, come abbiamo evidenziato in diversi articoli chiamando in causa Andrea Ghiselli del Crea e altri liberi professionisti come Eugenio Del Toma.

Per approfondire:

Coca-Cola ha finanziato occultamente scienziati per spostare la colpa dell’obesità dalla cattiva alimentazione allo scarso esercizio fisico. In rete i finanziamenti

Fonte: ilfattoalimentare.it 13-11-2015

Nuovi trend alimentari negli Usa, e le multinazionali cercano di adeguarsi

Le vendite di prodotti confezionati e pronti sono in calo costante, non solo nella grandi città a in modo uniforme in tutto il Paese. Le multinazionali rispondono a questo cambiamento proponendo alimenti nuovi, che seguano questi trend: tagliano quindi gli zuccheri aggiunti, gli aromi artificiali, offrono versioni light dei tradizionali prodotti oppure optano per l’integrale.

Negli Stati Uniti i consumatori stanno drasticamente cambiando le abitudini alimentari. Le vendite di prodotti confezionati e pronti sono in calo costante, non solo nella grandi città a in modo uniforme in tutto il Paese. La conseguenza? Anche gli acquisti nei supermercati stanno virando in altre direzioni: i surgelati hanno subito un calo del 12% dal 2007 al 2013, il consumo di bevande a base di soda è sceso del 25% a partire dal 1998 così come quello di cereali zuccherati per la colazione sempre del 25% a partire dal 2000.

Questo perché i consumatori sono più informati, conoscono gli ingredienti che vengono aggiunti agli alimenti industriali per renderli più appetibili sia a livello estetico che in fatto di sapore. Per questo i prodotti confezionati, per quanto comodi e gustosi sono sempre meno acquistati: i cittadini sanno che per la salute non sono la soluzione migliore. Le multinazionali rispondono a questo cambiamento proponendo alimenti nuovi, che seguano questi trend: tagliano quindi gli zuccheri aggiunti, gli aromi artificiali, offrono versioni light dei tradizionali prodotti oppure optano per l’integrale. Tuttavia, come sottolineano gli autori di un articolo del New York Times “A Seismic Shift in How People Eat”, tutto ciò non sarà sufficiente a salvarli.

Probabilmente la soluzione è la riduzione drastica dello zucchero, la riduzione degli ingredienti e la selezione di prodotti locali e biologici, soprattutto più frutta, verdura e alimenti integrali sviluppando maggiori offerte fresche. Si tratta quindi, per le grandi multinazionali, di modificare la catena di approvvigionamento, ristruttura, cercare nuove soluzione: investimenti notevoli, che rappresentano però l’unica soluzione per salvarsi.

TAZREEN: Le multinazionali non pagano

Un contributo diretto al fondo di risarcimento per i familiari delle vittime e per i sopravvissuti dell’incendio alla fabbrica Tazreen di Dhaka in Bangladesh. È la richiesta avanzata dalla Clean Clothes Campaign,presente in Italia con la sua sezione Campagna Abiti Puliti, e dal Labor Rights Forum ai clienti internazionali della fabbrica come l’americana

Laboratorio tessile bruciato in un incendio. Fonte: rapporto H&M in Bangladesh, Clean Clothes Campaign, ottobre 2015

Laboratorio tessile bruciato in un incendio. Fonte: rapporto H&M in Bangladesh, Clean Clothes Campaign, ottobre 2015

Walmart, la sezione spagnola de El Corte Ingles, il distributore tedesco KIK, C&A e Sean John’s Enyce brand, oltre ad altri marchi collegati come Edinburgh Woollen Mill (UK), KarlRieker (Germania), Teddy Smith (Francia), le americane Disney, Sears, Dickies e Delta Apparel e l’italiana Piazza Italia.

L’appello, ribadito con una nota diffusa ieri, arriva alla vigilia del terzo anniversario del disastro (24 novembre 2012) costato la vita a 112 persone. “Quando divampò l’incendio, i lavoratori restarono intrappolati nella fabbrica: le uscite erano bloccate e l’unico modo per scappare era buttarsi dalle finestre dei piani alti” ricordano i promotori della campagna. “Più di cento lavoratori rimasero feriti saltando da quelle finestre al terzo e quarto piano, con lesioni alla schiena e alla testa che hanno causato molto dolore”.

Un accordo per coprire la perdita di reddito e le spese mediche è stato siglato lo scorso anno da IndustriALL Global Union, la Clean Clothes Campaign, C&A e la C&A Foundation. L’intesa, ricorda la nota, “ha portato alla creazione del Tazreen Claims Administration Trust, che sovrintende il processo per le richieste di rimborso, collabora con le organizzazioni che rappresentano le famiglie e raccoglie fondi per effettuare i pagamenti. Le famiglie degli operai morti nel rogo hanno cominciato a registrare le loro richieste e oggi il Trust ha lanciato un nuovo sito web (http://tazreenclaimstrust.org), che fornisce informazioni sul processo e dettagli su come possono essere effettuate le donazioni”.

Gli attivisti hanno chiesto da tempo ai marchi con un fatturato di oltre 1 milione di dollari di versare almeno 100 mila dollari nel Trust Fund. “C&A e Li & Fung (che si riforniva per conto di Sean Paul) si sono già impegnate ad effettuare versamenti” ricorda la nota. “La tedesca KiK, attualmente coinvolta in una controversia per quanto riguarda il suo rifiuto di negoziare il risarcimento delle vittime dell’incendio alla Ali Enterprises, ha ora accettato di effettuare un versamento”.

Ma l’impegno, al momento, non è stato condiviso da tutti. “Il più grande cliente della Tazreen, Walmart, non ha ancora corrisposto un centesimo per le vittime e i loro familiari. Eppure nel 2014 aveva dichiarato pubblicamente la volontà di voler contribuire con 3 milioni di dollari attraverso la BRAC USA per le vittime del Rana Plaza e di altre tragedie dell’industria tessile del Bangladesh. 1 milione di dollari lo ha versato nel Rana Plaza Trust Fund, 92 mila dollari li ha forniti per le cure mediche. Cosa intende fare con il restante 1,1 milione di dollari promesso?”. Ad oggi, osservano ancora gli attivisti, “anche le intenzioni della sezione spagnola del El Corte Ingles non sono chiare, visto che, pur avendo partecipato al Comitato iniziale incaricato di portare avanti il processo sul Rana Plaza, non si è ancora impegnato per nulla sul caso Tazreen”.

Proprio i mancati contributi, unitamente alla scarsa attività di prevenzione e controllo sulle condizioni dei lavoratori della catena di fornitura, evidenzierebbero secondo gli attivisti il persistente problema di una sostanziale carenza regolamentare. Un argomento, quest’ultimo, che sarà al centro dell’incontro del prossimo 21 novembre a Torino (qui il programma) quando, nella cornice dell’ex Birrificio Metzger (via Bogetto 4/g, inizio del dibattito alle ore 10:30), attivisti, esperti del settore e istituzioni discuteranno sulle strategie e gli strumenti utili “per proteggere in maniera più efficiente ed efficace i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nel mondo”.

Fonte: valori.it – 18-11-2015

http://www.valori.it/economia-solidale/tazreen-e-le-multinazionali-che-non-pagano-10758.html