Plasmon toglie l’olio di palma dai biscotti per bambini. Un risultato importante che dimostra l’efficacia della pressione dei consumatori

Biscotto-Plasmon-olio-di-palma-senza-Dopo decine di lettere inviate da mamme e papà indignati per la presenza di olio di palma nei biscotti Plasmon, una petizione online su Change.org e il nostro racconto di una mamma arrabbiata perché non ha mai avuto risposte dall’azienda sul tipo di olio vegetale usato nei biscotti, oggi Plasmon ha deciso di dire stop all’olio tropicale, creando addirittura un pagina web dedicata.

 

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L’Italia non si trivella

Se non fermiamo le trivelle, il mare finirà nelle mani dei petrolieri.logo

Sì, perché puntare tutto sulle poche gocce di petrolio presenti sotto i nostri fondali vuol dire condannare il Paese alla dipendenza energetica dalle fonti fossili e dall’import, danneggiare il turismo, la pesca e le economie costiere, penalizzare le fonti rinnovabili. Affidarsi ai petrolieri vuol dire non far crescere l’occupazione, tenere le casse pubbliche a secco, smentire gli impegni che l’Italia ha preso dinanzi al mondo intero per la salvaguardia del clima. È un fallimento certo.

Sosteniamo da anni che trivellare i nostri fondali in cerca di petrolio è una pazzia che conviene solo a pochissimi, e in nessun modo alla comunità: il governo sta svendendo la bellezza del nostro Paese e i suoi mari per pochi spiccioli, perché le nostre royalties sono tra le più basse al mondo.

Per spiegare l’inutilità e il danno delle trivelle abbiamo solcato i nostri mari, da Genova a Trieste; abbiamo manifestato al fianco delle popolazioni locali contro i progetti che minaccia[va]no i loro litorali; abbiamo incontrato cittadini, amministratori, movimenti. Abbiamo occupato per giorni una piattaforma petrolifera e protestato persino dentro al Parlamento, mentre si votava lo Sblocca Italia.

Renzi, e quanti prima di lui hanno curato gli interessi dei petrolieri, non hanno ascoltato la nostra protesta. Solo la minaccia del referendum li ha fatti retrocedere su alcuni punti del loro piano “fossile”. Nel frattempo, il movimento contro le trivelle è cresciuto e oggi sfida la politica del governo.

Nove regioni hanno promosso un referendum per chiedere agli italiani da che parte stanno: con il mare, con le energie pulite, con la bellezza e l’integrità delle nostre coste e delle nostre acque, o con le lobby fossili. Dare una risposta chiara ora spetta a tutti noi.

Il governo sta tentando di scongiurare l’espressione del voto popolare con tutti i mezzi, arrivando a sprecare centinaia di milioni (che si sarebbero risparmiati con un Election Day) solo per scegliere la data di voto che più di ogni altra mette a rischio il quorum e comprime i tempi del confronto e dell’informazione.

È tempo di scegliere. Se non lo facciamo noi lo faranno i petrolieri.

L’ITALIA NON SI TRIVELLA. Dillo forte e chiaro il 17 aprile: VOTA SÌ.

Fonte: greenpeace.org

La moda sfrutta i bimbi siriani rifugiati in Turchia

E’ quanto rivela un report di Business and Human Rights Resource Centre (Bhrrc), un’organizzazione non profit che ha chiesto a 28 grandi aziende di svolgere dei controlli approfonditi sul personale impiegato. Ecco quali sono i marchi coinvolti e le loro posizioni a riguardo

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Le fabbriche turche di alcuni grandi marchi della moda internazionale sfruttano i bambini e i rifugiati siriani. A dirlo è un report di Business and Human Rights Resource Centre (Bhrrc), un’organizzazione non profit che ha chiesto a 28 grandi aziende di svolgere dei controlli approfonditi sul personale impiegato nei loro stabilimenti in Turchia. A rivelare la presenza di minori sfruttati sono stati i due grandi marchi Next e H&M. Primark e C&A hanno detto di avere identificato tra i lavoratori dei loro fornitori rifugiati siriani adulti. Altre case, come Adidas, Burberry, Nike e Puma, hanno detto di non aver trovato rifugiati siriani senza documenti nelle aziende da cui si riforniscono. Anche per questo, le Ong temono che il fenomeno sia ancora più diffuso, nonostante sia in discussione un accordo tra Unione Europea e Turchia per oltre 3 miliardi di euro di aiuti in cambio, tra le altre cose, di permessi di lavoro per gli immigrati siriani che, così, alleggerirebbero i flussi diretti verso il Vecchio Continente.

Il timore del Bhrrc è che il problema sia più esteso di quello emerso fino ad oggi. La Turchia è uno dei Paesi dove è forte la presenza di fabbriche che lavorano per i grandi marchi internazionali nel campo dell’abbigliamento. Sono 28 i brand alle quali l’organizzazione ha richiesto un’indagine approfondita sui propri stabilimenti e quelli dei propri fornitori. La risposta di soltanto due tra queste e l’elevato numero di profughi siriani presenti nel Paese, circa 2,5 milioni, fa pensare a Bhrrc che il fenomeno possa essere più vasto e diffuso. Next e H&M, dopo aver svolto i propri controlli, hanno comunque fatto sapere che si adopereranno per garantire a questi bambini un’educazione e supporto alle loro famiglie.

Tra le aziende coinvolte, sostiene il Guardian in una sua inchiesta, ci sarebbe anche il brand italiano Piazza Italia che, secondo quanto il quotidiano inglese, è stato contattato dal giornalista ma non ha voluto rilasciare commenti.

In Turchia questa situazione ha raggiunto numeri preoccupanti, si legge nel report, nonostante alcuni brand abbiano svolto dei controlli per assicurarsi che i rifugiati non siano “in fuga dal conflitto e sottoposti a condizioni lavorative di sfruttamento”. Secondo l’organizzazione sarebbero centinaia di migliaia i rifugiati siriani che lavorano con stipendi inferiori al salario minimo consentito, soprattutto in fattorie e aziende agricole nelle aree più remote del Paese. Esperti del Centre for Middle Eastern Strategic Studies (ORSAM) parlano di almeno 250 mila rifugiati siriani che stanno lavorando illegalmente in Turchia.

Bhrrc si dice preoccupata soprattutto perché “solo poche di queste aziende sembrano tenere in considerazione e monitorare problemi di questo tipo nelle fabbriche dei loro fornitori in Turchia”, tanto che spesso le ispezioni vengono preannunciate, permettendo ai responsabili di coprire le irregolarità: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.

Non è la prima volta che le vicende legate alla guerra civile siriana e le fabbriche di abiti turche si intrecciano. Secondo alcuni report, loStato Islamico controllerebbe circa il 75% dei campi di cotone siriani, con il prodotto finale che, come succedeva prima dello scoppio de conflitto, nel 2011, viene esportato in gran parte in Turchia, dove poi viene utilizzato per la produzione di abiti destinati ai negozi occidentali. Una situazione che permetterebbe agli uomini di Abu Bakr Al Baghdadi di arricchirsi grazie a un mercato che ha come cliente finale i cittadini europei e americani.

ilfattoquotidiano.it – 01 febbraio 2016

Coca Cola in ritirata dal Rajasthan: vincono i contadini

Da oltre 10 anni villaggi e comunità rurali si erano mobilitati contro il gruppo accusandolo di derubare le risorse idriche destinate alle campagne132602288-3fba3ef7-9c23-4dd7-ba54-835833b4794d

MILANO – Il Rajasthan indiano ferma la Coca Cola e costringe il colosso americano a battere in ritirata sospendendo l’imbottigliamento della bibita in tre impianti del Paese. Il gigante statunitense ha quindi ceduto alla pressioni che proseguono da oltre 10 anni durante i quali numerosi villaggi e comunità rurali in India si sono mobilitati, con proteste, manifestazioni, boicottaggi e liti legali, contro la Coca Cola e la Pepsi Cola, accusandole di derubare le risorse idriche destinate alle campagne, di usurpare le terre delle comunità contadine e di inquinare il suolo, attraverso il rilascio nel terreno di sostanze chimiche usate per il riutilizzo delle bottiglie.

In India l’agricoltura utilizza il 91% dell’acqua piovana, contro il 7% utilizzato dalle aree urbane e il 2% dall’industria. Gli impianti di imbottigliamento della Coca Cola (e della rivale Pepsi) sono accusati di consumare enormi quantità di acqua per la produzione delle bevande e il lavaggio delle bottiglie, a scapito proprio dei lavori agricoli della zona. Coca Cola ha sempre respinto le accuse, ma è stata anche costretta, nel corso di oltre un decennio, a ritirare molte domande di permessi per lo sfruttamento idrico delle falde acquifere.

Adesso la Hindustan Coca Cola ha annunciato di aver deciso la riorganizzazione operatività delle sue 24 società di imbottigliamento che operano in India e di aver deciso di chiudere l’impianto di Kaladera e altri due stabilmenti, uno nel Meghalaya e l’altro nell’Andhra Pradesh. Il gruppo sostiene che si tratti di impianti vecchi che verranno riutilizzati come magazzini. Nel 2005, la Coca Cola aveva già chiuso un impianto di imbottigliamento nel Kerala, sull’onda delle proteste delle comunità rurali, mentre nel Rajasthan sono almeno 25 mila i contadini che si sono battuti contro gli impianti americani e adesso accolgono con soddisfazione la decisione dell’azienda.

“Siamo contenti – dice Mahesh Yogi, uno dei capi della protesta contro il colosso Usa – L’impianto consumava il livello delle falde lasciandoci senz’acqua per irrigare i campi”. “Il vero problema – replica un portavoce della Coca Cola – è che gli sforzi degli ambientalisti dovrebbero includere dei passi per costringere gli agricoltori a usare l’acqua in modo più efficiente”.

 

fonte: repubblica.it – 12-02-2016

Commercio: con gli accordi TTIP i piccoli imprenditori dell’agroalimentare saranno schiacciati

Lo confermano 2 rapporti diffusi dal Dipartimento dell’agricoltura Usa. Non soltanto creerà difficoltà serie, ma tornerà a favore degli stessi Stati Uniti in maniera prepotente rispetto ai benefici dell’Europa unita

15_02_17-ttip_slideROMA  – Sono 2 studi quasi manicali americani, diffusi dalla Campagna StopTtip, ad affermare chiaramente i benefici che gli Usa potranno trarre dagli accordi sul Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (in inglese, Transatlantic Trade and Investment Partnership, appunto: Ttip). Benefici che – secondo gli analisti statunitensi – saranno enormemente inferiori per l’Ue, che comunque non accenna a ritrattare il Trattato, in corso dal 2013 e che quando diverrà operativo si creerà la più grande area di libero scambio, dal momento che l’Unione Europea e gli Stati Uniti rappresentano la metà del Pil di tutto il mondo  e un terzo del commercio globale.

I rapporti Usa che offendono l’Ue. Il 5 gennaio 2016, il Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti, sulle implicazioni del partenariato transatlantico (Ttip) per il settore agricolo, diffonde un approfondito documento dal quale emerge, nero su bianco, fino a che punto l’Unione Europea risentirà dalla firma dell’ accordo.

Tre sono i punti fondamentali. 

1) – Innanzi tutto, si prevede l’eliminazione delle sole barriere tariffarie e dei contingenti  tariffari di importazione (Trq), la qual cosa farà sì che le esportazioni agricole degli Stati Uniti verso l’Ue  aumenteranno di 5,1 miliardi di euro rispetto ai livelli del 2011, mentre quelle dell’UE  verso gli Usa crescerebbero di appena 0,7 miliardi di euro (le esportazioni  agricole UE diminuirebbero dello 0,25%).

2) – Il secondo scenario anticipa anche l’eliminazione delle barriere non tariffarie (Ntm): nel settore agricolo, le Nmt riguardano la sicurezza alimentare e se fossero eliminate, le esportazioni Usa crescerebbero di ulteriori 3,8 miliardi di euro,  mentre quelle UE aumenterebbero di 1,1 miliardi.

3) – Il terzo scenario analizza come tutto ciò influenzerebbe la domanda dei consumatori, i quali si orienterebbero sempre più ad acquistare prodotti locali piuttosto che importati, cancellando così qualsiasi guadagno derivante  dalla rimozione delle barriere tariffarie (anche se questo è il principale obiettivo  dichiarato del Ttip). Un secondo rapporto dello stesso Dipartimento americano, ribadisce i concetti.

Un massacro per l’Ue e per l’Italia. La Campagna StopTtip è tra le pochissime realtà d’Europa a battersi contro un trattato a cui i media sembrano non pensare. Ed è l’osservatorio della Campagna stessa ad aver diffuso i due rapporti americani. “Il ministero dell’Agricoltura Usa –  spiega Monica Di Sisto, portavoce della CampagnaStop Ttip  – è onesto nell’ammettere che, se con il Ttip vuole accelerare il commercio tra Usa e Ue per prodotti agricoli e cibo, bisogna eliminare non tanto dazi e problemi di dogana, ma le regole che ancora oggi ci proteggono, in Europa, da ormoni della crescita, residui di pesticidi, cibi biotech e tossicità simili. Pur facendolo, saranno gli Usa a guadagnarci in esportazioni, fino a 1000 volte più dei nostri Paesi, e in settori già massacrati per l’economia italiana come latte, carni rosse, frutta, verdura, olio.

Il fattpre “C“, cioè la coscienza dei consumatori. Gli imponenti flussi di prodotti e servizi in arrivo dagli Stati Uniti satureranno il mercato europeo, che per oltre l’80% dei produttori italiani, piccoli e medi, è l’unico mercato possibile, diminuendo ulteriormente le loro possibilità di sopravvivenza. Gli Usa, però, hanno anche valutato un terzo scenario: se tutti noi cittadini consumatori e le imprese che lavorano in qualità e quelle amministrazioni locali che legano la promozione dei loro territori e culture a prodotti sani e non massificati, non si fideranno delle nuove regole, non ci sarà da guadagnare per nessuno, perché tutti i prodotti a rischio verranno lasciati nei mercati e negli scaffali, e chi li produrrà verrà punito dalle scelte sbagliate dei Governi. Come Campagna StopTtip, lo chiamiamo “fattore C”: quello della coscienza di cittadini e consumatori, che si opporrà fino all’ultimo a politiche sbagliate come quelle del Ttip”.

Ttip: atto di masochismo per il nostro benessere generale. “Cornuti e mazziati – commenta Leonardo Becchetti, professore di Economia politica dell’Università Tor Vergata – lo studio dello US department for agriculture analizza cosa succederebbe se il Ttip eliminasse le “barriere non tariffarie” nell’interscambio agricolo tra Ue e Stati Uniti. Dall’analisi del rapporto emerge chiaramente che l’approvazione del Ttip non è solo un atto di masochismo economico per noi. Il problema è più sostanziale. Un accordo del genere non può essere valutato solo in termini di impatto economico, ma di benessere generale. Qualcuno si è preoccupato di valutare gli effetti sulla salute dei cittadini e sulle condizioni di lavoro di chi opera nel settore? Rischiamo ancora una volta di essere vittime del riduzionismo economicista che identifica la nostra felicità con la riduzione dei prezzi dei prodotti. Ma il benessere è un’altra cosa: dobbiamo imparare sempre di più che dietro un prezzo basso possono nascondersi insidie alla nostra salute alle condizioni di lavoro. Quanti euro di risparmio nel carrello della spesa valgono più rischi sulla salute e condizioni di lavoro più precarie?”.

di MARTA RIZZO – 27 gennaio 2016

fonte: repubblica.it

Migranti, se in Svizzera le spese di accoglienza le pagasse la Nestlé?

migranti1-630x419Fili invisibili. Proviamo ad unirli. La Société des Produits Nestlé S.A (nota più semplicemente come Nestlé) ha sede in Svizzera e paga le tasse nel paese, contribuendo in parte anche ai costi del sistema sociale. Supponiamo che la stessa società, vada incontro a una causa legale per “chiudere un occhio” sul presunto sfruttamento di lavoro minorile dei suoi fornitori nelle piantagioni di cacao della Costa d’Avorio. A questo punto chi dovrebbe pagare le spese di accoglienza dei migranti?

Facciamo un passo indietro. La Nestlè avrebbe provato a fermare la causa presso la Corte suprema americana (aver permesso ed essere complice dello sfruttamento di bambini nei campi della Costa d’Avorio) in cui è accusata di essere a conoscenza dell’impiego di manodopera minorile da parte degli agricoltori local. Avrebbe permesso e finanziato i produttori per avere la materia prima che serve a parecchie sue produzioni a un prezzo basso a causa di tale sfruttamento.

Abby McGilldell’International Labour Rights Forum(che ha originariamente introdotto la causa) ha affermato che la sua organizzazione “ha lottato per molto tempo per rendere trasparente la catena dei fornitori e per ristorare le vittime” dello sfruttamento. Citando uno studio finanziato dal Dipartimento del Lavoro Usa, del luglio scorso, McGill dice che ci sono 2,12 milioni di ragazzi nei campi di Costa d’Avorio e Ghana, in crescita netta rispetto al milione stimato per l’anno prima. Altri dati, relativi al2013, dicono che in media il coltivatore di cacao di quelle regioni ha sei bambini e che sopravvive grazie a un reddito reale di 40 centesimi al giorno.

Questi dati, ampiamente diffusi sulla stampa internazionale, possono essere accostati a questi altri che dicono che la Svizzera ha deciso di imporre a chi chiede accoglienza di consegnare fino a1.000 franchi svizzeri dei loro beni per pagare le spese. La Svizzera, come la Danimarca, impone ai rifugiati di consegnare fino a 1.000 franchi svizzeri (circa 900 euro) dei loro beni per pagare le spese di accoglienza.

Ricapitolando: mentre il Ceo di Nestlé, Paul Bulcke, nel 2013 ha intascato 12,6 milioni di franchi (238 volte i dipendenti), i minori ivoriani sono costretti a lavorare nelle piantagioni da cui proviene una buona parte degli introiti della Nestlè per integrare il misero salario familiare. Oppure, per le bambine, l’alternativa è la prostituzione. Ma allora, se questi bambini, da soli o accompagnati dai loro genitori, volessero andare in Svizzera in cerca di quella vita decente che non trovano nel loro paese, perché chiedere loro di privarsi di quel poco che hanno? Non hanno forse già contribuito ad arricchire – con  il loro lavoro – il paese verso cui sono diretti tramite i guadagni delle multinazionali che vi hanno sede? E se il governo svizzero non riesce a sostenere le spese per la loro accoglienza, perché non si rivolge direttamente alla Nestlé?

Niente di personale. Solo una favola che unisce fili invisibili.

Damiano Rizzi
Presidente Soleterre ONG e Tiziana vive ONLUS

fonte: ilfattoquotidiano.it – 16-01-2016

Le multinazionali del lavoro nero

Uno studio della Csi svela la presenza, nelle catene di approvvigionamento di 50 tra le più grandi aziende del pianeta, di attività economiche sommerse per 116 milioni di persone interessate. Shara Burrow: “Lavoratori condannati a vivere nella povertà”.

extracomunitari-lavoro33-1_2282Un nuovo rapporto della Csi (Confederazione internazionale del lavoro) svela la presenza, nelle catene di approvvigionamento di 50 tra le più grandi aziende del pianeta, di lavoro nero per 116 milioni di persone interessate (solo il 6% del personale ha un rapporto diretto con la società per cui lavora). Da sole, queste 50 società (che includono marchi del livello di Samsung, McDonalds, Nestlé) detengono una ricchezza accumulata di 3.400 miliardi di dollari statunitensi.

Nel rapporto (“Nouveaux fronts” 2016) si rileva un modello economico insostenibile, praticamente presente in tutti i paesi del mondo, e si traccia il profilo di 25 società con base in Asia, in Europa e negli Usa.L’inchiesta del sindacato mondiale mette in luce quanto segue: • la liquidità delle 25 aziende esaminate (equivalente a 387 miliardi di dollari statunitensi) potrebbe aumentare i salari dei lavoratori in nero (per 71,3 milioni di persone) di più di 5mila dollari statunitensi per anno; • negli Usa, 24 società (da Amazon a Walmart, a Walt Disney) detengono una ricchezza accumulata con cui si potrebbe comprare il Canada; • le entrate combinate di 9 imprese asiatiche (fra cui Foxconn, Samsung e Woolworths) – 705 miliardi di dollari statunitensi – equivalgono al valore degli Emirati Arabi; • in Europa 17 società (fra cui Siemens, Deutsche Post e G4s) si spartiscono redditi totali di 789 miliardi di dollari statunitensi, equivalenti al valore della Malesia.

“Gli utili – sottolinea il rapporto della Csi – vengono realizzati a spese di bassi salari, che non permettono ai lavoratori di vivere una vita dignitosa, e vengono fatti lievitare grazie a frodi fiscali o all’inquinamento di terre e acque. Non solo: in nome del profitto, la sicurezza è trascurata”. “Finché le imprese internazionali – commenta Shara Burrow, segretaria generale della Confederazione internazionale del lavoro – non accetteranno di accogliere le richieste di un salario minimo (177 dollari Usa al mese a Phnom Penh, 250 dollari a Giacarta, 345 dollari a Manila), condanneranno i lavoratori e le loro famiglie a vivere nella povertà”.

Per questo, per trasformare il modello economico delle imprese mondiali e porre un argine alle disuguaglianze, i dirigenti sindacali presenti al Forum economico mondiale di Davos, che si è tenuto dal 20 al 23 gennaio, hanno presentato un piano in 4 punti: 1) massima attenzione da parte dei datori di lavoro a un’equa distribuzione delle ricchezze, grazie a salari minimi che consentano una vita dignitosa, e a una contrattazione collettiva che si basi sul rispetto fondamentale della libertà sindacale; 2) rispetto delle norme di sicurezza e attenzione alla partecipazione dei lavoratori ai Comitati di sicurezza; 3) rispetto da parte dei governi dello stato di diritto, oltre che delle Linee guida per le imprese multinazionali; 4) priorità per i sistemi di protezione sociale previsti nei diversi ambiti nazionali.

Per ulteriori approfondimenti si rinvia al rapporto della Csi.

Silvana Paruolo, area politiche europee e internazionali Cgil nazionale

Fonte: http://www.rassegna.it/ – 04-02-2016

 

La tenerezza è la maturità umana

Vogliamo condividere questo brano di Adriano Sella,

dove descrive che la vera maturità umana viene raggiunta mediante la tenerezza.

abbraccio bianco e nero

La tenerezza è la maturità umana,

ma è anche il cuore di Dio e delle sue creature

Da diverso tempo mi ritrovo pienamente nella corrente del pensiero che crede fermamente nella seguente verità: il profondamente umano e anche profondamente cristiano, e viceversa.

Oggi, soprattutto nei paesi occidentali, constatiamo sempre più frequentemente che abbiamo riempito la vita della gente di tanti oggetti e cose, ma l’abbiamo impoverita di relazioni umane fatte di cura e di custodia gli uni verso gli altri. Abbiamo sempre più un mondo ebbro di consumi, come ha dichiarato papa Francesco nella notte del Natale 2015, ma purtroppo sempre più povero di tenerezza. Questa corsa alla ricchezza economica e al consumismo compulsivo è generatrice di violenze: conflitti, odi, chiusure, indifferenze e guerre. Mentre, come ci ricorda Jean Vanier, nel suo ultimo libro Chi risponde al grido?, è la tenerezza il contrario della violenza. Il fondatore della comunità Arca, facendo un elogio della tenerezza, riporta nel suo libro la testimonianza di uno psichiatra, con cui ha lavorato insieme: “Non era credente, ma era profondamente umano. Un giorno sono andato a trovarlo e gli ho chiesto: “Secondo te, che cos’è la maturità umana?. E lui mi ha risposto: “è la tenerezza”. Perché la tenerezza è l’opposto della violenza. É un atteggiamento del corpo: degli occhi delle mani, del tono di voce (…). Consiste nel riconoscere che l’altro è bello e nel rivelarglielo. Ma con il nostro corpo, attraverso la nostra maniera di ascoltarlo, le parole che gli rivolgiamo”. Jean Vanier scrive anche nel suo libro: “Gesù è venuto ad insegnarci la tenerezza. È l’atteggiamento che permette di accogliere l’altro e di vivere in relazione con lui”.

Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium scrive: Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza (n. 88). Sottolineatura presente anche nel numero 270 nell’esprimere che conoscere la forza della tenerezza è volontà di Gesù, perché “ogni essere umano è oggetto dell’infinita tenerezza del Signore, ed Egli stesso abita nella sua vita” (n. 274). Il papa ci invita poi, nel 279, ad imparare a riposare nella tenerezza delle braccia del Padre. Infine, ritorna a sottolineare la forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto, guardando a Maria, e sostenendo, sempre nello stesso numero 288, che la tenerezza non è la virtù dei deboli ma dei forti.

Nell’enciclica Laudato si’ ci rivela come l’amore di Dio che si manifesta nel Creato è la tenerezza di Dio. Dichiara il n. 77: “così, ogni creatura è oggetto della tenerezza del Padre, che le assegna un posto nel mondo“. La tenerezza è, secondo l’enciclica, la dimensione del cuore che genera un “autentico sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura” (n. 91). Papa Francesco, nel 220, parla di una conversione che comporta una cura piena di tenerezza. E poi presenta la figura di San Giuseppe come un uomo giusto e forte con grande tenerezza, sottolineando che “la tenerezza non è propria del debole ma di chi è forte ed è un atteggiamento fondamentale per proteggere questo nostro mondo che Dio ci ha affidato” (n. 242). Inoltre, papa Francesco, nelle due preghiere finali dell’enciclica, ci rivela che tutto quanto esiste è circondato dalla tenerezza di Dio e che tutte le creature sono colme della presenza e della tenerezza di Dio. Infine, non si può dimenticare l’immagine della carezza che il papa dipinge: “Tutto l’universo materiale è un linguaggio dell’amore di Dio, del suo affetto smisurato per noi. Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio (n.84).

Papa Francesco ci parla dell’importanza della tenerezza anche nelle sue omelie. Infatti, nella Messa della notte di Natale del 2014 ha esclamato: “Quanto bisogno di tenerezza ha oggi il mondo! Pazienza di Dio, vicinanza di Dio, tenerezza di Dio”.

Questa tenerezza deve manifestarsi nel quotidiano mediante scelte e atteggiamenti di affetto, di prossimità e di vicinanza, come sottolinea il teologo Josè Frazao Correia nel suo libro La fede vive di tenerezza, dove presenta la teologia del quotidiano perché tutti questi gesti di tenerezza e di affetto possono essere profondamente spirituali se esprimono un legame con gli altri. Inoltre, il teologo dichiara che l’esperienza fondante e fondamentale è quella del sapersi amato dall’amore vivo e vivente di Dio, ma questa fede si nutre di concretezza, altrimenti rimane astratta, ossia contiene una verità esistenziale che ha una risonanza affettiva per tutti: “attraverso l’affetto si vive affettuosamente legati: l’amato alla sua amata, il figlio al padre e alla madre, l’amico all’amico. L’affetto è il legame della relazione giusta, di quella che si genera e si alimenta dalla fiducia sentita e conosciuta, accolta e ricambiata”. Vivendo così, sottolinea il teologo, l’affetto di Dio Padre e di Gesù per noi, ricevuto e ricambiato. Ecco perché la fede è affetto.

Credo fermamente a questa realtà della tenerezza come la forza di cura e di custodia più grande che abbiamo e che possiamo vivere, perché è il cuore di Dio e di ogni sua creatura.

Voglio viverla anche affrontando derisione, pregiudizio, incomprensione ed emarginazione. Non posso vivere senza la tenerezza perché è anche il mio cuore come creatura di Dio, per poter creare legami esistenziali ed essenziali verso tutte le altre creature e verso Dio Padre e Madre.

Adriano Sella

(missionario del creato e dei nuovi stili di vita)

e-mail: adrianosella80@gmail.com web: www.contemplazionemissione.wordpress.com

Responsabilità sociale sulle imprese (Indagine NIELSEN 2014)

RESPONSABILITA SOCIALE

Ultima indagine Nielsen 2014banner-tema

67% degli intervistati vorrebbe lavorare in un'”impresa socialmente responsabile”

NB: Leggi questo interessante articolo del noto economista Leonardo Becchetti.

In quest’anno che si è appena aperto, nonostante le tante nubi che si addensano all’orizzonte di economia e società, si intravedono anche fondati elementi di speranza. L’ultima indagine Nielsen sulla responsabilità sociale (2014) condotta su decine di migliaia di persone in più di 56 Paesi rilevava che il 67% degli intervistati vorrebbe lavorare in un’”impresa socialmente responsabile”. Parallelamente sempre più imprenditori d’Oltreoceano investono gran parte del loro tempo in iniziative di filantropia e si preoccupano, oltre che del profitto, dell’impatto (sociale) delle loro attività sulle comunità di riferimento. In quest’anno che si è appena aperto, nonostante le tante nubi che si addensano all’orizzonte di economia e società, si intravedono anche fondati elementi di speranza.
Nulla di strano, in fondo, se pensiamo alla vera gerarchia dei bisogni scritta dentro di noi. Esistono “beni superiori” e “beni inferiori”, ovvero beni che contribuiscono di più e beni che contribuiscono di meno a dare senso e soddisfazione alla nostra vita. In un’ideale piramide di Maslow, dove alla base ci sono i beni inferiori e necessari e poi vengono i beni superiori, il profitto sta sotto e l’impatto sociale sta sopra, e con esso il desiderio di rendere felice chi è nel bisogno e di essere apprezzato e amato dai propri simili per aver fatto qualcosa di utile per la società. Una prova empirica di ciò sono gli studi econometrici sulla soddisfazione di vita quando indicano chiaramente che la relazione tra reddito personale e soddisfazione di vita è concava. Abbiamo bisogno di risorse economiche per poter vivere degnamente, ma al di sopra di una certa soglia guadagnare di più non ci rende più felici. Altre evidenze provenienti da diverse discipline (dagli studi su felicità e salute alla ricerca sui neuroni a specchio) ci confermano che siamo fatti di relazioni e per massimizzare il senso e la felicità della nostra vita non c’è niente di meglio che rendere i nostri simili felici assieme a noi.
Coerentemente con la spinta proveniente da questa scala di bisogni, nel corso degli ultimi anni qualcosa sta cambiando nella stessa patria del capitalismo. Negli Usa si è levata l’ondata delle benefit corporations (autorizzate in una trentina di Stati), cioè di imprese che vogliono andare oltre obiettivo del profitto per subordinarlo alla massimizzazione dell’impatto sociale ed ambientale. Sono dunque sempre più numerose le notizie di imprenditori che passano dal profit all’impact e decidono che lo scopo più nobile della vita è avere un impatto positivo sulla vita dei propri simili. L’esempio di Bill Gates, e della fondazione che ha costruito con la moglie, non è l’unico. Basta guardare al cambio di vita del fondatore di E-Bay e all’impegno umanitario di molti dei miliardari della rete. Il fatto che siano diventati ricchi molto prima di quanto accadesse ai magnati del passato accelera il loro “ciclo di vita”, convincendoli ad impegnare energie in età ancora giovane verso il bene comune.
L’elemento che ancora stona nel processo è l’approccio “a due stadi” che prevede che si debba prima costruire enormi ricchezze per iniziare a redistribuire. La via più breve ed efficace resta invece quella di iniziare da subito a dare il massimo senso alla propria vita occupandosi di creare valore economico, sociale e ambientale sostenibile, valore condiviso tra i portatori d’interesse. Ed è questa la novità verso cui le b-corporations tendono, pur nei loro limiti e contraddizioni, dimostrando che lo spazio occupato da tempo dalle imprese sociali e cooperative in Italia sta diventando sempre più appetito dal mondo del profit. C’è dunque un filone “carsico” d’ispirazione che scorre nelle vene della storia, emerge in forme sempre nuove ma parte da lontano, dalla nascita dei Monti di Pietà, dei crediti cooperativi e arriva più recentemente al commercio equosolidale, alla banca e alla finanza etica, al microcredito, generando attraverso un processo di azione e reazione, di contagio, imitazione e concorrenza competitiva la responsabilità sociale d’impresa. Non roviniamo la festa ai neofiti delle b-corporations e alla loro soave superficialità del pensare di essere stati i primi ad inventare l’impresa responsabile se ciò serve ad alimentarne ancor più l’entusiasmo. Ci basterà ricordare che, se davvero l’impresa che subordina la creazione di valore all’impatto sociale “inizia oggi” con la benefit corporation, allora tutto quello che è venuto prima è b-corporation… ante litteram.
Ciò che è veramente importante è che il fiume del progresso verso il bene comune continui a scorrere verso la foce e che l’ispirazione sia sempre più supportata da imprenditori illuminati, istituzioni benevolenti e orientate al bene comune, cittadini attivi e consapevoli di detenere metà del potere sui mercati, quello della domanda che sceglie cosa comprare e come risparmiare. Se tutto procederà nella direzione giusta, un giorno ci accorgeremo che dal modello d’impresa di qualche anno fa a quello del futuro passa la stessa differenza che c’è tra uno spettacolo di gladiatori della Roma antica e di una partita di rugby. E in tempi in cui tutto corre velocissimo, il passaggio da un’epoca all’altra potrebbe essere molto più rapido

Fonte: Editoriale di Avvenire del 29-01-2016

LA DENUNCIA DI AMNESTY – Morire di cobalto. Sotto accusa le multinazionali

Amnesty International e Afrewatch: lavoro minorile e sfruttamento per il cobalto degli smart phone e delle batterie delle automobili

CS010: 19/01/2016
In un rapporto pubblicato oggi, Amnesty International e Afrewatch hanno chiesto alle aziende di apparecchi elettronici e alle fabbriche automobilistiche di dimostrare che il cobalto estratto nella Repubblica Democratica del Congo grazie al lavoro minorile non viene usato nei loro prodotti.

Il rapporto ricostruisce il percorso del cobalto estratto nella Repubblica Democratica del Congo: attraverso la Congo Dongfang Mining (Cdm), interamente controllata dal gigante minerario cinese Zheijang Huayou Cobalt Ltd (Huayou Cobalt), il cobalto lavorato viene venduto a tre aziende che producono batterie per smart phone e automobili: Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina e L&F Materials in Corea del Sud. Queste ultime riforniscono le aziende che vendono prodotti elettronici e automobili.

Ai fini della stesura del rapporto, Amnesty International ha contattato 16 multinazionali che risultano clienti delle tre aziende che producono batterie utilizzando il cobalto proveniente dalla Huayou Cobalt o da altri fornitori della Repubblica Democratica del Congo: Ahong, Apple, BYD, Daimler, Dell, HP, Huawei, Inventec, Lenovo, LG, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen e ZTE.

Una ha ammesso la relazione, quattro hanno risposto che non lo sapevano, cinque hanno negato di usare cobalto della Huayou Cobalt, due hanno respinto l’evidenza di rifornirsi di cobalto della Repubblica Democratica del Congo e sei hanno promesso indagini.
cobalto-lavoro-minorile-congo-bambini-350x249Nessuna delle 16 aziende è stata in grado di fornire informazioni dettagliate, sulle quali poter svolgere indagini indipendenti per capire da dove venga il cobalto.

Il fatto certo è che la Repubblica Democratica del Congo produce quasi la metà del cobalto a livello mondiale e che oltre il 40 per cento del cobalto trattato dalla Huayou Cobalt proviene da quello stato.

Mentre le aziende produttrici di apparecchi elettronici o batterie automobilistiche fanno lucrosissimi profitti, calcolabili in 125 miliardi di dollari l’anno, e non riescono a dire da dove si procurano le materie prime, nella Repubblica Democratica del Congo i bambini minatori – senza protezioni fondamentali come guanti e mascherine – perdono la vita: almeno 80, solo nel sud del paese, tra settembre 2014 e dicembre 2015 e chissà quanto questo numero è inferiore a quello reale.

Secondo l’Unicef, nel 2014 circa 40.000 bambini lavoravano nelle miniere delle regioni meridionali della Repubblica Democratica del Congo. Prevalentemente, nelle miniere di cobalto.

Come Paul, 14 anni, orfano. È uno degli 87 minatori o ex minatori incontrati da Amnesty International in vista del rapporto. Ha iniziato a lavorare nella miniera a 12 anni. Ha già i polmoni a pezzi:

“Passo praticamente 24 ore nei tunnel. Arrivo presto la mattina e vado via la mattina dopo. Riposo dentro i tunnel. La mia madre adottiva voleva mandarmi a scuola, mio padre adottivo invece ha deciso di mandarmi nelle miniere”.

Il cobalto è al centro di un mercato globale privo di qualsiasi regolamentazione. Non è neanche inserito nella lista dei “minerali dei conflitti” che comprende invece oro, coltan, stagno e tungsteno.

FINE DEL COMUNICATO                                                                         Roma, 19 gennaio 2016
Il rapporto “This is what we die for: Human rights abuses in the Democratic Republic of the Congo power the global trade in cobalt” è disponibile all’indirizzo: https://www.amnesty.org/en/documents/afr62/3183/2016/en e presso l’Ufficio Stampa di Amnesty International Italia.

Per approfondimenti e interviste: Amnesty International Italia – Ufficio Stampa

Fonte: Amnesty International – Sezione Italiana