Nestlè accusata di sfruttare la schiavitù in Thailandia

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Una class action è stata presentata in un tribunale statunitense contro Nestlé. La multinazionale svizzera è stata accusata di aver venduto le scatolette di cibo per gatti “Fancy Feast” sapendo che il pesce contenuto è stato fornito da un’azienda thailandese accusata di tenere in condizioni di schiavitù i lavoratori. Del caso si sono occupati i principali media americani: qui si può leggere il resoconto di Yahoo Finance, qui l’articolo del New York Times che parla, avendo consultato i documenti delle Dogane Usa, del coinvolgimento non solo di Nestlè ma anche di marchi come Iams e Meow Mix.
“Nascondendo al pubblico questi fatti”, ovvero lo sfruttamento del lavoro, “Nestlé ha effettivamente raggirato milioni di consumatori, che hanno così sostenuto e incoraggiato il lavoro forzato su prigioni galleggianti” ha detto l’avvocato Steve Berman, che rappresenta le quattro persone che hanno presentato la class action “in nome di tutti gli acquirenti di Fancy Feast in California”. “È un fatto che migliaia di acquirenti non avrebbero comprato questo prodotto se avessero saputo la verità, ovvero che centinaia di persone sono messe in schiavitù, picchiate e persino uccise durante la produzione di questo cibo per animali”.
Nestlé ha risposto che il lavoro forzato “non ha posto nella nostra catena di fornitura”. L’azienda non ha commentato l’azione legale, ma ha detto che sta lavorando con un’organizzazione non governativa per “identificare dove vi siano abusi e lavoro forzato” in Thailandia e nel sud-est asiatico. Secondo la class action, Nestlé lavorerebbe con Thai Union Frozen Products Pcl per importare più di 13 milioni di chilogrammi di cibo per animali da vendere negli Stati Uniti e che alcuni degli ingredienti dei suoi prodotti sarebbero il frutto di lavoro forzato.

http://www.ilsole24ore.com/ 29-08-2015

Approfondimento: Nestlè denunciata per aver sostenuto forme di schiavismo nel sud est asiatico. Non sarebbe il caso che anche i consumatori italiani vengano avvertiti?

Fairphone 2, il telefono equo e solidale lontano dalle guerre e dallo sfruttamento

L’omonima azienda olandese lancia la seconda versione del suo dispositivo equo e solidale fatto con materiali ottenuti rispettando i diritti degli uomini e dell’ambiente. I suoi componenti vengono realizzati in fabbriche regolari e i minerali con cui sono realizzati certificati.

LA MAGGIOR parte dei nostri telefoni contiene minerali provenienti da zone di guerra. Oppure metalli scavati a mani nude da bambini e lavoratori schiavizzati. Fairphone non ce li mette, semplicemente. Fairphone è una piccola azienda olandese che è nata con lo scopo di realizzare un telefono “equo e solidale”, un telefono di ultima generazione ma robusto, efficiente e open source. E Fairphone2 è il nome del secondo modello di questo dispositivo etico appena messo in vendita sul sito dell’azienda: è un 4G, monta il sistema operativo Android e ha una doppia SIM. Veloce, versatile e robusto, è concepito per essere modificato sia a livello software che a livello hardware perché le parti che si usurano possono essere sostituite.

Continua a leggere l’articolo e guarda le foto su Repubblica.it

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Sito ufficiale: http://www.fairphone.com/

13 agosto 2015: Earth Overshoot Day

overshoot-day-13-agostoIl giorno del superamento che misura l’impronta ecologica: Earth Overshoot Day 2015

Il 13 agosto è il giorno del superamento del 2015, chiamato Earth Overshoot Day.  Questa data rivela il giorno in cui l’umanità ha consumato tutte le risorse naturali che madre terra ci mette a disposizione per arrivare fino alla dfine dell’anno.

Questo significherà che stiamo vivendo oltre il limite. Dopo questa data manterremo il nostro debito ecologico prelevando stock di risorse ed accumulando anidride carbonica in atmosfera, inquinando così il pianeta senza dargli la possibilità di rigenerarsi. Questo significa che siamo costretti a mangiarci il seme che è il principio della vita.

Nel 2014 il giorno del superamente era accaduto il 19 agosto, mentere nel 2013 il 20 di agosto.

Vi invitiamo a leggere questo articolo molto interessante ed importante, clicca qui Earth Overshoot Day 2015

Olio di palma: traffico di esseri umani, violenze e abusi in Malesia. Il prodotto arriva a Nestlé e Procter & Gamble

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Un’inchiesta del Wall Street Journal denuncia gli abusi a cui sono sottoposti i migranti, in particolare del Bangladesh e di Myanmar (Birmania), che vengono portati a lavorare nelle piantagioni di palma da olio in Malesia. È stata ricostruita la vicenda del ventiduenne Mohammad Rubel, che dallo scorso dicembre, quando è arrivato dal Bangladesh attraverso l’intermediazione di trafficanti di esseri umani, ha lavorato sette giorni su sette, senza ricevere alcuna retribuzione.

Dopo un viaggio durato 21 giorni, in circa 200 su un peschereccio di contrabbandieri lungo dodici metri, con cibo e acqua scarsi, e decine di morti, Rubel è stato trattenuto per settimane in un accampamento nella giungla, sino a che i trafficanti sono riusciti a estorcere un riscatto ai suoi genitori in patria. Rubel racconta di aver visto decine di migranti morire per sfinimento, malattie o percosse.

Continua…

Beniamino Bonardi

Fonte: ilfattoalimentare.it   Data: 7/8/2015

Svolta nella spesa in Italia: più frutta e verdura che carne

Svolta nelle abitudini alimentare degli italiani: per la prima volta la spesa per frutta e verdura sorpassa quella della carne. Lo rileva la Coldiretti in occasione della «Festa della frutta e della verdura» a Expo. L’associazione che riunisce gli agricoltori italiani parla di una «rivoluzione epocale» per le tavole nazionali, che non era mai avvenuta in questo secolo.

Per la prima volta la spesa per frutta e verdura degli italiani ha sorpassato quella per la carne ed è diventata la…

Posted by La Stampa on Martedì 28 luglio 2015

Dalla coca al cacao equo e solidale si può, Icam e Perù

Azienda italiana lavora con rete coop Acopagro, solidarietà conviene a tutti

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Dalla foglia di coca alla fava di cacao: è possibile un’intera economia contadina per decenni basata sulla produzione di coca, ed è possibile farlo in termini tale per cui la solidarietà conviene a tutti, produttori e trasformatori.

E’ questa l’esperienza portata a Expo dalle cooperative del Perù che rientrano nella rete Acopagro e dall’azienda cioccolatiera italiana Icam. Le buone pratiche del Perù in agricoltura sono state in grado di combattere il traffico di droga e in certe realtà la dove prima si coltivava coca ora si coltiva caco, e lo si esporta in termini economicamente sostenibili per i produttori. Secondo i dati dell’Unodoc, l’ufficio Onu per la lotta alla droga e alla criminalità, nel 2014 le superfici coltivate a coca sono diminuite in Perù del 14% rispetto al 2013. Merito di iniziative come quella delle cooperative peruviane di Acopagro, che riunisce 2.000 coltivatori ed è oggi al settimo posto tra le prime 10 aziende esportatrici di cacao del Perù. “Abbiamo iniziato circa 20 anni fa, un periodo nel quale sembrava impossibile parlare ai contadini di sostituire la coca col cacao – ha detto a Expo il direttore commerciale di Acopagro, Gonzalo Rios -. Ora siamo tra i principali produttori di cacao biologico del Paese. Offriamo un prodotto che ha un mercato internazionale e, soprattutto, i contadini vivono meglio, usano le tecnologie agricole più avanzate e hanno accesso al microcredito, uno strumento fondamentale per poter convertire le coltivazioni.

Siamo riusciti anche a istituire premi per la qualità del loro cacao e borse di studio per i figli”.

Acopagro esporta soprattutto in Svizzera, Belgio e Italia.

Qui ha incontrato Icam (storica azienda cioccolatiera di Lecco, con 350 dipendenti e un fatturato di 125 milioni di euro) e Otto Chocolates, giovane impresa genovese specializzata nella produzione di cioccolato certificato biologico e Fairtrade.

“Oggi il rendimento economico della coltivazione di cacao compete con quello che viene dalla coltivazione della coca – ha spiegato il presidente di Icam, Angelo Agostoni -. Questo è il punto di svolta di tutto. Non c’è più una ragione economica per tornare alla coca. La filiera va oltre i confini del Perù e prosegue in aziende come la nostra, fino ai consumatori”.

Icam importa dal Perù 5mila tonnellate di cacao all’anno, di cui 3.500 sono di cacao proveniente da commercio equo solidale.

“Collaboriamo con Acopagro da sei anni, abbiamo condiviso il nostro know how, lo abbiamo guidati verso la crescita qualitativa del prodotto. L’acquisto da parte di Icam del cacao prodotto è diventato un elemento basilare per consentire il consolidamento e la crescita delle cooperativa stessa”.

(di Ilaria Liberatore) (ANSA) – MILANO, 21 LUG

Milano, dopo 30 anni chiude McDonald’s: la sua ricetta non piace più in Italia (e nel mondo)

Chiude un punto vendita Mcdonald’s a Milano dopo ben 30 anni di attività. Una crisi che ha investito il marchio nella sua interità e che non sembra essere passeggera. Le previsioni, infatti, non sono affatto rosee.

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Sarà un caso sicuramente, ma proprio mentre lo stile italiano continua a conquistare nuovi spazi nelle maggiori capitali del mondo, come Londra, dove dopo la “trattoria” in stile italiano di Angela Hartnett sarà la volta dello chef Jacob Kenedy di inaugurare la sua “pizzeria” italiana, Vico, dove sarà possibile mangiare “street food” di origine rigorosamente italiana a prezzi assolutamente abbordabili (Kenedy è del resto da tempo innamorato dell’Italia: è suo, infatti, il ristorante di lusso Bocca di Lupo, sempre a Londra), lo stile “fast food” è sempre più in crisi, a cominciare dall’insegna più nota al mondo, quella di McDonald’s. Non è un caso che il 19 Luglio abbia chiuso il primo McDonald milanese, quello di San Babila, aperto ormai 30 anni fa.

Non solo da un paio d’anni almeno le trimestrali del gruppo si succedono deludendo quasi invariabilmente le attese di analisti e investitori: secondo un sondaggio condotto da Mark Kalinowski, analista finanziario che da anni è specializzato nel settore della ristorazione, avendo lavorato tra l’altro per broker come Janney Montgomery Scott, Buckingham Research Group e Citigroup, le cose rischiano di andare ancora peggio in futuro. Le previsioni per i prossimi sei mesi sono infatti al loro minimo storico.

Mark ha chiesto a 29 franchisee che nel complesso posseggono 208 ristoranti McDonald’s in tutti gli Stati Uniti, di indicare le proprie previsioni sull’andamento degli affari nei prossimi sei mesi dell’anno utilizzando una scala da 1 (deludente) a 5 (eccellente): il risultato medio è risultato pari a 1,69, il minimo da quando 12 anni fa Mark ha iniziato a condurre questo sondaggio. Notare che il minimo precedente era stato toccato, solo tre mesi fa, con un indice medio di 1,81.

Non è solo una questione di aspettative: dall’indagine è emerso che in giugno le vendite dei 29 franchisee sono in calo mediamente del 2,3% annuo, calcolate sui soli ristoranti che erano già aperti 12 mesi fa (“same store sales”) e che ci si aspetta un ulteriore calo dell’1,2% nel mese di luglio. Un dato peggiore delle attese degli analisti di Wall Street, il cui consenso parla tuttora di un incremento delle vendite, fatto che rischia di portare a nuovi cali del titolo in borsa.

Cosa non sta funzionando del tentativo, messo in atto da tempo, di far voltare pagina al gruppo? Uno dei partecipanti al sondaggio è stato fin troppo esplicito: “L’azienda non ha risposte. Loro (i manager di McDonald’s, ndr) stanno provando a gettare delle idee contro il muro, sperando che qualcuna attecchisca. La loro arroganza complessiva è venuta alla radice”. Almeno in questo le grandi corporation Usa non sembrano molto dissimili da quelle di tutto il resto del mondo, ma se in altri casi l’arroganza del management può essere tollerata dai risultati che ottiene, in casa McDonald’s non è così.

Eppure McDonald’s ha reagito alla pubblicazione del report, che a Wall Street ha ceduto giovedì l’1,8% e venerdì un ulteriore 0,37%, con una nota sdegnata in cui si sottolinea come siano “circa 3.100 i franchisee che possiedono e gestiscono ristoranti McDnald’s in tutti gli Stati Uniti. Meno dell’1% di essi è stato intervistato per questo report. Valutiamo il feedback dei nostri franchisee ed abbiamo solide relazioni di lavoro con essi”.

A giudicare dalla risposte dei singoli partecipanti al sondaggio non si direbbe che le cose stiano così, almeno non in tutti i casi. Tra le lamentele più frequenti, sono state citate deboli azioni di marketing, una “povera” percezione da parte della clientela e l’ignoranza dell’azienda (ovvero dei suoi manager). Uno dei rispondenti ha ad esempio spiegato che le sue vendite “continuano a calare a causa dei nuovi concorrenti” e di non attendersi niente di buono per tutto il 2015. Un altro ha spiegato che “almeno metà degli operatori della mia regione sono sull’orlo di un collasso. Con la paga minima dei dipendenti dei fast food che potrebbe continuare a crescere, siamo affrontando una situazione di crisi”.

Il sospetto di molti analisti, tuttavia, è che più che un problema di costi o di marketing non particolarmente brillante, McDonald’s non stia riuscendo a tener testa a nuovi e più aggressivi concorrenti, da Shake Shack a Sonic piuttosto che Whataburger, le cui vendite sono costantemente in crescita e che dunque erodono la base-clienti di McDonald’s mese dopo mese. Nel tentativo di metterci una pezza a maggio il Ceo Steve Easterbrook ha annunciato un piano di ristrutturazione che dovrebbe portare a 300 milioni di dollari di risparmio all’anno e che prevede, tra l’altro, che entro il 2017 solo il 10% dei ristoranti con insegna McDonald’s sia di proprietà dell’azienda, contro l’80% attuale.

Inoltre la società inizierà a diffondere i risultati di vendita solo più su base trimestrale, e non mensile come finora, a partire dal terzo trimestre dell’anno. Mosse che mi paiono molto difensive e forse persino all’insegna di una minore trasparenza, come se il management pensasse che a far guadagnare terreno alla concorrenza sia l’eccessiva conoscenza della “ricetta” aziendale di McDonald’s. Non sembra tuttavia essere questa la sola né la principale causa di debolezza della maggiore catene di fast food al mondo, che ha iniziato ad andare in crisi prima sui mercati internazionali, poi anche negli Usa, per non aver saputo proporre nuovi menù in grado di soddisfare una clientela sempre più esigente e non necessariamente con poco denaro da spendere. Che McDonald’s sia destinata ad essere la vittima più illustre della crescita del reddito mondiale? L’ipotesi al momento non può essere esclusa.

fonte: http://www.fanpage.it/  –  20 luglio 2015

 

Il colonialismo armato delle multinazionali. Il caso della multinazionale Chiquita in Colombia.

Chi sostiene le varie guerre che insanguinano il mondo, fonte di instabilità planetaria e degli esodi di massa? Ecco il caso in Colombia della Chiquita Brand, quella del bollino blu, con sede principale negli Stati Uniti, multinazionale della frutta che domina il mercato delle banane, presente in 11 paesi con un fatturato di 2,2 miliardi di dollari.

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Tre centesimi di dollaro per ogni cassa di banane. Era questo il racket che la multinazionale alimentare pagava ai paramilitari di estrema destra delle Autodefensas Unidas(Auc), affinchè garantissero protezione alle proprie piantagioni dalla guerriglia delle Farc. Il fatto è già noto, la Chiquita, che inonda i supermercati e i negozi con il bollino blu, è stata condannata a pagare 25 milioni di dollari.

Quello che però è più recente è il fatto che le 934 vittime, che vengono attribuite alla Chiquita tramite la mano dei gruppi armati che finanziava e che erano tra i protagonisti della guerra in Colombia, non avranno giustizia. 4mila colombiani hanno sporto denuncia presso i tribunali statunitensi contro la multinazionale di quel paese; ma i tribunali a stelle e strisce hanno risposto di non essere competenti poiché i fatti sono avvenuti fuori dalle frontiere degli Stati Uniti. In verità non sempre è stata eccepita l’incompetenza territoriale per quello che a lungo è stato considerato l’orto di casa.

Secondo la versione dell’azienda tutto ebbe inizio nell’anno 1995. Un pulmino di suoi operai, nella regione dell’Urabà, fu fermato dai paramilitari delle Auc mentre si dirigeva in uno dei molti campi di banane della zona. Gli occupanti furono fatti scendere, costretti ad inginocchiarsi e mentre guardavano per l’ultima volta il fertile orizzonte della regione falciati tutti a colpi di fucile. Morirono in 38 e la Chiquita per evitare altre azioni incominciò a pagare ai paramilitari il pizzo che chiedevano.

Versione non si sa quanto credibile. Infatti, già nel 1928, quando si chiamava United Fruit, l’azienda bananiera ordinò all’esercito colombiano, come fosse al suo servizio, di porre fine allo sciopero dei suoi braccianti con la famigerata strage di Aracataca in cui morirono 300 persone e che Gabriel Garcia Marquez ha descritto nel suo capolavoro “Cent’anni di solitudine”.

La multinazionale ha già confessato di aver finanziato le Auc, organizzazione armata attiva nell’alimentare il terrore nel paese sudamericano ed emanazione del narcotraffico, con 1,7 milioni di dollari tra il 1997 e il 2004, ma non sarà processata per la sua partecipazione alle stragi di inermi cittadini, grazie a cavilli formali. Anche se il famigerato capo supremo delle Auc, Carlos Castano Gil ha raccontato in un’intervista al El Tiempo, quotidiano colombiano, che il 5 novembre 2001 arrivò nel porto di Zungo un grande cargo battente bandiera panamense che scaricò direttamente in un magazzino della Chiquita 23 container, ufficialmente carichi di palloni di gomma, in verità di 3mila fucili AK 47 e 5 milioni di cartucce calibro 5,62. Le armi erano destinate dalla multinazionale con il bollino blu ai paramilitari delle Auc.

La Chiquita, attraverso una complessa ingegneria finanziaria è ancora ben presente in Colombia e ha continuato a versare ingenti quantità di denaro alle cooperative di sicurezza, dietro cui si nascondono tuttora le Auc. Lo ha affermato il quotidiano di Bogotà, El Espectador.

– di: Pedro Cardenas –

fonte: http://100passijournal.info   –   14/07/2015

Kraft-Heinz, la fusione ora è ufficiale

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Sarà la settima food & beverage company al mondo, guidata dal brasiliano Hees. Previsti subito tagli ai costi per 1,5 miliardi di euro.

 

 

The Kraft Heinz Company è ora una realtà. L’approvazione della fusione da parte degli azionisti di Kraft Foods dà il definitivo via libera all’operazione nata a marzo con la proposta lanciata da H.J. Heinz, che delle due entità è quella che “compra”. Nasce così ufficialmente un colosso da 29,1 miliardi di dollari di fatturato aggregato (dati 2014), ovvero 26,2 miliardi di euro, somma dei 10,9 miliardi di dollari di fatturato di Heinz, cui si aggiungono i 18,2 miliardi di Kraft. La proprietà sarà per il 51% dei soci di Heinz, ovvero la Berkshire Hataway di Warren Buffet e il fondo a capitali brasiliani 3G Capital, che rilevarono qualche anno fa la società pariteticamente. Sarà quotata alla borsa di New York.

La nuova società, lo dimostra il fatturato, sarà un big mondiale del food & beverage: nella speciale classifica per ricavi in euro (bilanci 2014) si posiziona direttamente al settimo posto che vede in testa Nestlè con 91,6 miliardi di franchi svizzeri (85,8 miliardi di euro), PepsiCo con 66,7 miliardi di dollari (60 miliardi di euro), Ab Inbev con 47 miliardi di dollari (42 miliardi di euro), The Coca-Cola Company con 45,9 miliardi di dollari (41,3 miliardi di euro), Jbs con 120,5 miliardi di Real brasiliani (34,9 miliardi di euro), Mondelez Internazional con 34,2 miliardi di dollari (30,8 miliardi di euro).

Sono arrivate subito le nuove nomine di vertice: l’amministratore delegato del nuovo colosso sarà il brasiliano Bernardo Hees, già a capo di Heinz, mentre a capo delle operazioni europee ci sarà Matt Hill, anch’esso di derivazione del colosso del ketchup. Molte le fuoriuscite tra il management di Kraft, com’era lecito attendersi. Nei prossimi 2 anni la società procederà a tagli di costi per 1,5 miliardi di dollari: uno sforzo decisamente importante ma in linea con l’operatività di 3G capital, nota nel mondo per la capacità tagliare all’osso le spese. Quando acquisì Heinz taglio 7400 pusti di lavoro e chiuse 5 stabilimenti produttivi.

In parallelo alla ridefinizione dei costi partirà anche la revisione delle ricette e dei prodotti: lo aveva lasciato intendere lo stesso Warren Buffet lo scorso marzo mentre illustrava l’operazione: l’Oracolo di Omaha aveva esplicitamente parlato di una sfida salutistica per le grandi multinazionali del cibo, che non può essere ignorata perché arriva da richieste molto precise dei consumatori. La nuova conglomerata agirà in questo senso, è il parere di alcuni analisti americani che hanno commentato l’operazione.

fonte: http://www.foodweb.it/     6-7-2015