Quanto è sostenibile la tua scatoletta di tonno preferita?

 

cover-PLANET

Abbiamo valutato gli 11 marchi di tonno più diffusi sui nostri scaffali, che rappresentano circa l’80% del mercato italiano, in base alle loro politiche di sostenibilità e equità, le specie catturate, i metodi di pesca usati e le informazioni che forniscono ai consumatori.

Dalla scorsa edizione tanti dimostrano di lavorare per una pesca sostenibile e per la piena trasparenza, ma c’è anche chi continua ad essere completamente dipendente da una pesca distruttiva.

Prima di mettere una scatoletta nel tuo carrello della spesa assicurati di sceglierne una davvero sostenibile!

greenpeace.it

Guarda la classifica e firma per chiedere maggiore sostenibilità a MareBlu

 

Di seguito un articolo da Corriere.it

ROMA – «Cinque anni fa, quando abbiamo iniziato questa campagna, quasi nessuna azienda aveva adottato criteri di sostenibilità nella scelta del tonno da mettere nelle scatolette. Oggi quasi tutti i marchi che abbiamo analizzato hanno politiche di acquisto scritte nero su bianco». E’ con ottimismo che Giorgia Monti commenta i risultati della classifica “Rompiscatole” di Greenpeace. Una campagna, giunta quest’anno alla sua quarta edizione, nata per valutare la sostenibilità del tonno in scatola venduto in Italia: circa 144 mila tonnellate per un giro di affari che supera il miliardo di euro.

A due anni dall’ultima classifica, le aziende che si stanno impegnando per contrastare la pesca distruttiva salgono di posizione, mentre chi non mantiene le promesse finisce in fondo. Per la prima volta quest’anno conquista la fascia verde un marchio italiano, AsdoMar. Un riconoscimento ottenuto grazie all’attenzione dedicata dall’azienda alle tecniche di pesca sostenibile, come la pesca a canna usata nel 30% delle produzioni. Seguono poi Esselunga e Conad, che scalano la fascia arancione grazie ai progressi nelle politiche di acquisto per evitare metodi di pesca distruttivi, anche se dovranno esigere dai fornitori informazioni più dettagliate sui metodi di pesca. Resta in quarta posizione RioMare che, a detta di Greenpeace, sta lavorando per aumentare la produzione di pesca sostenibile, anche se molte delle scatolette vendute contengono ancora tonno pescato con metodi distruttivi.

Declassato in fascia rossa Mareblu che, secondo l’organizzazione, sembra non voglia proprio darsi da fare. «Molte aziende – ha spiegato Monti – hanno ormai capito che sempre più consumatori privilegiano prodotti che non danneggiano l’ambiente. Mareblu continua invece a comportarsi in maniera irresponsabile tradendo la nostra fiducia. Deve impegnarsi per rispettare gli impegni presi per garantire una pesca equa nel completo rispetto dei diritti umani».

fonte: corriere.it 27-10-2015

Guarda la classifica e firma per chiedere maggiore sostenibilità a MareBlu

Unilever e il termometro dei diritti negati

A raccontare tra le lacrime la verità è la signora Esther Rani, sessantacinquenne madre di un giovane operaio che lavorava per Unilever. “A 19 anni mio figlio Britto è andato a lavorare in fabbrica. Mentre era lì si lamentava sempre di dolori alla testa e di altri fastidi, ma continuava a recarsi a lavoro nonostante il malessere per contribuire alle misere entrate della nostra famiglia. Era il nostro unico figlio, mio marito e io stavamo invecchiando e abbiamo pensato che ci avrebbe aiutati con quel lavoro.Ma la salute di Britto peggiorava e la famiglia non sapeva cosa fare: “A un certo punto non se l’è più sentita di continuare e ha lasciato il lavoro. Un giorno la febbre era molto alta, aveva la nausea e ha vomitato sangue. Le analisi hanno dato il fegato per spacciato. Con enormi sacrifici e chiedendo prestiti a chi poteva aiutarci l’abbiamo fatto ricoverare in ospedale, dove ci hanno detto che era necessario sottoporlo a dialisi. Per assicurargli le cure abbiamo dovuto vendere la casa, la nostra terra, gli animali e, pur avendo venduto tutto, non ce l’abbiamo fatta. Dopo 6 mesi passati a letto è morto. Non avevamo i soldi nemmeno per seppellirlo. Da allora in poi anche la nostra salute è peggiorata, mio marito sta sempre male e non abbiamo più nessuna fonte di reddito in famiglia.”

Altri operai hanno condiviso con Britto la sua triste sorte. Tutti avevano lavorato alla fabbrica di termometri di Unilever a Kodaikanal, chiusa 14 anni fa a seguito della rilevazione di altissimi indici di inquinamento da mercurio (risultati aggiornati allo scorso giugno segnalano ancora elevati residui di mercurio nella zona). Tutti erano stati esposti a questa potentissima tossina che intossica il fegato. L’azienda però, pur avendo dichiarato la chiusura della fabbrica nel 2001 a seguito delle denunce di Greenpeace e di altre realtà ambientaliste che avevano reso noti i retroscena della produzione, contesta le richieste degli ex dipendenti che imputano alla gestione della fabbrica i notevoli peggioramenti di salute dovuti all’esposizione al mercurio. I familiari dei lavoratori hanno infatti dichiarato che gli operai non erano nemmeno dotati di equipaggiamento protettivo, né venivano informati degli altissimi rischi che correvano a causa dei terribili impatti del mercurio sulla salute.

Lo scorso 25 settembre un comunicato stampa dell’organizzazione Kodai Mercury segnala che 45 vincitori di premi legati alla tutela ambientale e ai diritti umani provenienti da 30 Paesi (tra cui anche Vandana Shiva) hanno indirizzato una lettera a Paul Polman, direttore generale di Unilever insignito del premio 2015 “Champions of the Earth”. Cosa si chiede? Il testo integrale lo si può leggere qui ma, in poche parole, si invita Polman a non dimenticare che il premio porta con sé una “onerosa responsabilità” e a intervenire personalmente per assicurare una sistemazione dignitosa ai lavoratori e alle famiglie che hanno subito contaminazioni legate al mercurio, nonché per bonificare la zona secondo standard internazionali.

La fabbrica, di proprietà della Hindustan Unilever, rimane inoltre responsabile dell’inquinamento dell’area circostante che, dalla chiusura a oggi, non è mai stata bonificata, con gravi conseguenze per le foreste circostanti e le falde acquifere.

Purtroppo le famiglie non possono affrontare da sole le spese per l’assistenza medica di cui avrebbero bisogno. Hanno perciò cercato di convincere i proprietari della fabbrica a recuperare l’area e a sostenere le spese per le cure ospedaliere, attivando una campagna internazionale – con la possibilità di firmare una petizione per sostenere loro e la causa che vuole rendere concrete le parole di Polman, il quale ha fatto di politiche rispettose di lavoratori e ambiente la chiave distintiva del suo operato. Proprio il ruolo che ricopre gli permetterebbe di intraprendere azioni unilaterali che costringano la sede distaccata della Unilever ad assumersi le proprie responsabilità.

Un invito in questo senso proviene anche da Sofia Ashraf, faccia pulita ma piglio deciso. Sofia è una giovane cantante indiana originaria del Tamil Nadu, salita agli onori della cronaca – e diventata famosa – a suon di rap e diritti (snocciolati indossando un burqa). Il singolo “Kodaikanal Won’t”, nonostante tragga ispirazione da una hit meno impegnata e dalla discutibile poesia (Anaconda di Nicki Minaj), al di là dei rimandi di note rappresenta una durissima denuncia al sopruso: “Kodaikanal non si tirerà indietro” si avvisa, “fino a quando Unilever non riparerà ai danni”. Complici i social network, la campagna ha fatto il giro del mondo e il silenzio dei vertici non potrà durare ancora per molto. Aspettiamo anche noi la necessaria risposta.

 

fonte: unimondo.orgkodaikanal-wont

Congresso USA: fermate il TPP. Impediamo alla Monsanto e C. di realizzare il suo sogno

Congresso USA: fermate il TPP

Firma la Petizione (avaaz.org)

17717_monsanto_0_1920x960_1_460x230

Dodici Paesi hanno appena firmato un accordo segreto che regala alle multinazionali enormi poteri sul 40% dell’economia mondiale. Ma se agiamo rapidamente, possiamo impedire che il Congresso Americano lo approvi.

Si chiama TPP: un accordo commerciale che potrà censurare internet ma soprattutto dare a Monsanto e alle altre grandi multinazionali tutto quello che hanno sempre sognato. La buona notizia è che nel Congresso USA sta crescendo una opposizione sempre più ampia: se loro lo bloccano, il trattato è finito. E anche il dibattito su un accordo molto simile per l’Europa potrebbe subire un duro colpo.

Avaaz ha la possibilità unica di far arrivare fino ai senatori del Congresso USA il sostegno di cui hanno bisogno da parte dei cittadini di tutto il mondo per fermare l’assalto delle multinazionali alle nostre democrazie. Unisciti all’appello e condividilo con tutti.

Firma la Petizione (avaaz.org)

“Avaaz è un’organizzazione non governativa internazionale istituita nel 2007 a New York che promuove attivismo su tematiche quali il cambiamento climatico, i diritti umani, i diritti degli animali, la corruzione, la povertà e i conflitti. La sua missione dichiarata è quella di permettere che i processi decisionali di portata globale vengano influenzati dall’opinione pubblica. L’organizzazione opera in quindici lingue diverse, e conta, stando al sito ufficiale, circa 41 milioni di membri iscritti in 194 paesi.” (Wikipedia)

www.avaaz.org

Gelati: Nestlè e R&R si alleano, nasce un colosso da 3 miliardi

Dopo che Unilever ha rilevato la catena gelatiera italiana Grom con 65 punti vendita nel mondo, sta giungendo a conclusione la trattativa da 3 miliardi di euro tra Nestlè e la britannica R&R Ice Cream (presente anche in Italia con i marchi Del Monte e Oreo). Tra brand coinvolti Toblerone, Milka, Oreo, Del Monte (R&R), oltre che Motta, Cremeria, Antica Gelateria del Corso (Nestlè).

C’è aria di nozze nel mondo del gelato. E’ infatti in dirittura d’arrivo la trattative tra due giganti del settore, Nestlè e la R&R (fondo PAI Partners), per la creazione di una joint venture con impatto prevalentemente in Europa e Africa. Un’operazione da 3 miliardi di euro che coinvolgerà brand come Toblerone, Milka, Oreo, Del Monte (R&R), oltre che Motta, Cremeria, Antica Gelateria del Corso (Nestlè), con l’obiettivo di rafforzare le vendite mondiali.

R&R, controllata dal fondo private equity francese PAI, ha un fatturato di 900 milioni di euro, è il terzo player mondiale del gelato dopo Unilever e Nestlè ed è presente in Italia con un sito produttivo a Terni. La società è presente anche nel Regno Unito, in Germania, Francia, Polonia, Sud Africa e Australia. Il suo business è concentrato nel canale ‘in home’, ovvero quello che riguarda i gelati venduti nella grande distribuzione e consumati a casa. La Nestlè invece è leader nell”out home’, ovvero il gelato confezionato che si acquista fuori dalla grande distribuzione, nei bar o in gelateria. Alla joint venture, di cui la R&R ”entrerà a far parte nella sua interezza”, Nestlè – secondo quanto si apprende – ”contribuirà includendovi il business del gelato presente in Europa, Egitto, Filippine, Brasile e Argentina”. E farà parte della joint venture ”anche il business europeo dei surgelati, ad eccezione della pizza”. Una combinazione che ”garantirà alla joint venture la presenza in canali complementari sia nei mercati maturi che in quelli emergenti dall’emisfero nord a quello sud”.

A conclusioni dei colloqui e delle consultazioni sindacali e dopo il via libera delle autorità competenti, si darà luogo al nuovo assetto nel corso del 2016. Ad ognuna delle parti spetterà il 50% della nuova joint venture, che opererà in oltre 20 paesi impiegando più di 10.000 persone. La nuova joint venture avrà come Chairman l’attuale Executive Vice President Europa, Medio Oriente e Nord Africa di Nestlè Luis Cantarelli, mentre il Ceo sarà il numero uno di R&R Ibrahim Najafi. Il board di controllo sarà composto da Nestlè e PAI Partners in egual misura.
R&R e Nestlè collaborano già da 14 anni. Prima nel Regno Unito e in Irlanda, poi in Australia e Sud Africa, paesi in cui R&R ha la licenza dei marchi Nestlè.

Fonte ansa.it 06/10/2015

Tpp, firmato accordo libero scambio Usa-Pacifico.

L’intesa sull’abolizione di tariffe e altre barriere commerciali riguarda un’area che vale il 40% del Pil mondiale. Dopo quasi otto anni di trattative, il presidente Obama incassa il principale successo della sua agenda economica. Che punta esplicitamente ad arginare l’influenza cinese.

Approfondimento: Le sette cose da sapere sul trattato di libero scambio nel Pacifico (Tpp)

I negoziatori di Stati Uniti e di altri undici Paesi del Pacifico hanno firmato il più grande accordo di libero scambio nella storia recente, il Trans-Pacific Partnership. Sulla carta l’accordo intende abolire barriere commerciali e stabilire regole comuni in materia di tutela dei lavoratori, dell’ambiente e della regolamentazione dell’e-commerce in Paesi che in totale coprono il 40% della produzione mondiale: Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Canada, Messico, Perù, Cile, Vietnam, Singapore, Brunei e Malesia. La Cina è fuori. Del resto è noto che l’intesa rientra nei piani della Casa Bianca che prevedono lo spostamento degli interessi degli Usa verso il Pacifico anche per contrastare il dilagare di Pechino. Non per niente il presidente Barack Obama subito dopo la firma ha chiosato: “Non possiamo lasciar scrivere le regole dell’economia globale a Paesi come la Cina”.

L’accordo, che dovrà essere approvato ora dal Congresso Usa e dai rispettivi governi degli altri Paesi, è arrivato dopo un’ultima maratona negoziale durata l’intero weekend in un albergo di Atlanta, negli Stati Uniti. Dopo quasi 8 anni di trattative, durante i quali ha dovuto affrontare non solo le difficoltà negoziali ma anche resistenza interne, Obama incassa così il principale successo della sua agenda economica. Rispondendo alle critiche di chi teme rischi per i consumatori, il presidente ha detto che l’intesa “livella il terreno di gioco per i nostri agricoltori, allevatori e industriali” e “dà ai nostri lavoratori l’equa chance di successo che spetta loro”. Poi ha assicurato: “Gli americani avranno mesi per leggere ogni singola parola del trattato”. I cui dettagli finora sono stati tenuti segreti, proprio come quelli del discusso Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip) tra Usa e Ue. Che secondo i leader del G7 dovrebbe essere sottoscritto entro fine anno, ma i cui negoziati languono.

L’ultimo nodo del Tpp ha riguardato la protezione dei brevetti farmaceutici, ma i colloqui sono stati difficili anche per il settore auto, i latticini e la proprietà intellettuale. Ora la parola spetta al Congresso Usa che dovrà ratificarlo. E già si prevede una lunga battaglia. Obama si troverà ora a dover di nuovo a fare i conti con i dubbi dei repubblicani, ma anche di molti democratici, sull’impatto che l’accordo potrà avere sull’economia reale americana. Dal momento che nei mesi scorsi, dopo un lungo braccio di ferro, Obama ha ottenuto il fast track, il Congresso non potrà però emendare il contenuto dell’intesa ma solo approvarla o bocciarla. Il voto comunque non sarà immediato e potrebbe arrivare il prossimo febbraio o anche più in là, se Obama aspetterà che vengano delineati tutti gli ultimi dettagli prima di comunicare al Congresso con 90 giorni di anticipo la sua intenzione di firmarlo, come è obbligato a fare.

Inevitabilmente il tema è destinato a essere uno degli argomenti della campagna elettorale del 2016, con Donald Trump che già critica l’accordo e Hillary Clinton che, di fronte alla forti critiche espresse dalla sinistra democratica, ha assunto una posizione attendista sui negoziati che ha lanciato lei stessa da segretario di Stato. Una cautela dettata da necessità elettorali dal momento che l’Afl-Cio, i sindacati confederati Usa il cui sostegno è cruciale per il candidato democratico alla Casa Bianca, è critico nei confronti dell’intesa. E ha appoggiato la sinistra democratica guidata da Elizabeth Warren, ex consigliere economico di Obama e ora senatrice leader dei liberal, contraria alla concessione del fast track.

Ora che l’accordo è chiuso, l’amministrazione democratica spera di riuscire a ridurre l’opposizione di sindacati e gruppi ambientalisti insistendo su quelle che vengono definite “le misure più robuste in materia ambientale finora previste da un accordo commerciale”. “Tpp mette l’interesse dei lavoratori americani al primo posto – sostengono fonti dell’amministrazione citate dal sito Politico.com – comprendendo gli standard più severi in materia di tutela dei lavoratori, anche nelle aree dello sfruttamento del lavoro minorile, di lavoratori non protetti e dei salari minimi“.

Fonte: ilfattoquotidiano.it – 5 ottobre 2015

Approfondimento: Le sette cose da sapere sul trattato di libero scambio nel Pacifico (Tpp)

 

I gelati di Grom venduti a Unilever. La gestione resta ai fondatori

310x0_1443715961077_combo_gromUnilever annuncia l’acquisizione di Grom, l’azienda italiana produttrice di gelato fondata nel 2003 a Torino dai soci Federico Grom e Guido Martinetti. L’acquisizione di Grom, spiega Unilever in una nota, rafforza ulteriormente il portfolio del gruppo nella categoria ice-cream. Oggi Grom è un’azienda dal marchio premium che produce gelato italiano e conta 67 negozi in Italia e nel mondo. Il business Grom «resterà autonomo e continuerà a essere gestito da Federico e Guido da Torino».

Unilever, gigante da 48,4 miliardi di euro (dato 2014), è presente sul mercato con i marchi Algida e Magnum (in Italia proprio in questi giorni è in corso una vertenza su 151 esuberi nello stabilimento di Pasacarola, in Campania). Gli ultimi dati relativi al fatturato della casa di gelati torinese registravano un fatturato di circa 30 milioni di euro e circa 650 collaboratori.

Una nota diffusa da Grom precisa che «questa collaborazione rappresenta per Grom una straordinaria occasione per continuare il percorso virtuoso che ne ha caratterizzato la storia: partire dall’agricoltura e, scegliendo le migliori materie prime, valorizzare il gelato italiano di qualità portandolo nei piu’ importanti mercati del mondo».

I termini dell’accordo non vengono resi pubblici dalle parti. Uno dei due fondatori, Guido Martinetti, afferma che la casa di gelati «continuerà ad utilizzare i migliori ingredienti provenienti dalla nostra azienda agricola biologica Mura Mura e quelli realizzati dai nostri fornitori, e manterremo la produzione a Torino, per continuare ad offrire ai nostri consumatori i gelati ed i sorbetti che amano» e aggiunge «siamo orgogliosi di aver la possibilità di lavorare insieme ai migliori manager di Unilever, perché siamo certi che grazie alle loro competenze e alla loro conoscenza dei mercati internazionali riusciremo a realizzare il sogno, nato 12 anni fa in un piccolo negozio nel centro di Torino, di portare il gelato italiano di qualità nel mondo».

A sua volta Federico Grom sottolinea che il passaggio di proprietà dell’azienda «è un traguardo importante perché ci permette di realizzare le nostre ambizioni. Unilever – aggiunge – è una realtà internazionale con importanti radici in Italia e una forte conoscenza del nostro mercato, dove è presente da 50 anni. Riteniamo che Unilever, con la quale condividiamo valori fondamentali, come la cura della qualità e della filiera agricola, sia il partner giusto per fare un ulteriore passo in avanti, e portare così il nostro brand ed i nostri prodotti in nuovi paesi».

(Radiocor – Il Sole 24 Ore) fonte: http://www.ilsole24ore.com

TTIP: facciamo il punto – 5 Ottobre 2015 ore 20:30 presso Cooperativa Insieme a Vicenza

5 Ottobre 2015 – ore 20:30
presso Cooperativa Insieme
Vicenza | via Dalla Scola 253

TTIP:  facciamo il punto

ttipNe parliamo con
Monica Di Sisto
giornalista, vicepresidente di Fairwatch,
docente di Modelli di Sviluppo Economico
alla Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Gregoriana di Roma.

Interessa direttamente quasi un miliardo di persone, metà del Prodotto Interno Lordo mondiale e un terzo del commercio su scala planetaria. Eppure, dell’Accordo di Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership), fra Stati Uniti ed Unione Europea, si continua a sapere poco o niente, dal momento che i negoziati, che riprenderanno nel prossimo Ottobre, restano avvolti nel mistero. Molte sarebbero, comunque, le questioni ancora irrisolte, tra cui quella del meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitori e Stati (ISDS), su cui la Commissione Europea ha avanzato, a metà Settembre, una nuova proposta, che recepisce le raccomandazioni votate dal Parlamento Europeo nel Luglio scorso, ma che sembra scontentare tanto gli Stati Uniti, che la vedono come fumo negli occhi, quanto gli oppositori all’accordo.
Intanto, la campagna europea STOP TTIP lancia una settimana di mobilitazione, ai primi di Ottobre, per superare quota 3 milioni di firme – ne sono già state raccolte 2,75 milioni – e far uscire dall’ombra anche gli altri trattati: il TPP, ‘gemello’ per l’area del Pacifico; il CETA, l’accordo fra Canada e Unione Europea; e il TISA, il negoziato per la liberalizzazione completa dei servizi.

L’agricoltore francese avvelenato dall’erbicida vince la sua battaglia contro Monsanto

Il colosso Usa dovrà risarcire un contadino di cereali di Bernac. Nel 2004 era rimasto intossicato dal prodotto utilizzato (e poi vietato) per il mais

ZAJVSYQH-kbFD-U10601210693595edH-700x394@LaStampa.it

Davide contro Golia. Ossia il piccolo agricoltore francese che la spunta contro una multinazionale americana: la corte d’appello di Lione ha condannato il gruppo Monsanto, ritenuto responsabile dei gravi problemi di salute vissuti da Paul François, coltivatore di cereali a Bernac, nella Charente, profondo Ovest agricolo della Francia.

L’uomo è stato intossicato da un erbicida utilizzato per il mais e prodotto dalla società americana. «È un grande sollievo per me. Mi metto alle spalle otto lunghi anni di lott », ha detto François, dopo aver ascoltato la sentenza, che condanna Monsanto a risarcire « totalmente » il contadino per i danni fisici subiti. È la prima vittoria di questo tipo da parte di un agricoltore francese contro la multinzionale.

I fatti risalgono al 2004. François si ritrova a pulire un serbatoio contenente del Lusso, l’erbicida ora nell’occhio del ciclone. Sarebbero le inalazioni del gas tossico emanato da quel prodotto che avrebbero causato al contadino gravi problemi neurologici, classificati ormai dalle autorità francesi come malattia professionale dal 2010. «Vivo permanentemente sotto una spada di Damocle, ho delle lesioni che evolvono lentamente ». È classificato come handicappato parziale.

Nel 2012 in primo grado la giustizia francese gli aveva già dato ragione. Adesso Monsanto potrebbe fare ricorso alla Cassazione ma per il momento l’eventualità appare improbabile. In realtà Monsanto ha ritirato il Lasso dalla vendita in Francia nel 2007. E lo aveva già fatto nel lontano 1985 in Canada e nel 1992 in Belgio e nel Regno Unito. Nonostante questo i rappresentanti dell’azienda hanno continuato a difendersi durante il processo affermando che « il prodotto non era pericoloso ».

di LEONARDO MARTINELLI – fonte: lastampa.it 10-09-2015

Maltrattamenti e crudeltà nell’allevamento di polli, Mc Donald’s rescinde il contratto con fornitore

Nel video caricato su YouTube, e ripreso nella fattoria T&S Farm di Dukedom, si vedono più addetti alla soppressione degli animali usare lunghi bastoni dalla punta aguzza con cui spaccano crani senza andare troppo per il sottile e spezzare colli e ali del pollame tenendo la testa degli animali schiacciata sotto la suola delle scarpe e tirando il corpo al contrario.Chicken-McNuggets

Troppa crudeltà nell’uccidere i polli. McDonald’s si copre gli occhi e taglia la fornitura di pollame alla T&S Farms, uno tra i più grandi allevamenti degli Stati Uniti. Ancora una volta a scatenare la reazione indignata di un grande colosso industriale è un video girato clandestinamente da un gruppo animalista, Mercy for Animals. Nel video caricato su Youtube, e ripreso nella fattoria T&S Farm di Dukedom nel Tennessee, si vedono più addetti alla soppressione dei polli usare lunghi bastoni dalla punta aguzza con cui spaccano crani senza andare troppo per il sottile e spezzare colli e ali del pollame tenendo la testa degli animali schiacciata sotto la suola delle scarpe e tirando il corpo al contrario.

T&S è uno dei maggior produttori di carne di pollo per la Tyson Foods Inc., che a sua volta rifornisce direttamente McDonald’s. Dopo aver preso visione del filmato, entrambe le aziende hanno reciso immediatamente i legami con l’allevamento di pollame del Tennessee. Vale Sparkman, portavoce della Tyson, ha spiegato che sulla base “di quello che abbiamo visto nel video, abbiamo rescisso il contratto di fornitura di polli dalla T&S per la nostra azienda. Siamo impegnati nel garantire il benessere animale, e questo video non descrive di certo come trattano i polli gli allevamenti da cui ci riforniamo”. McDonald’s, attraverso un comunicato, ha definito le azioni compiute nel video come qualcosa di “inaccettabile” e ha espresso il suo sostegno alla Tyson per aver posto fine al contratto con il fornitore incriminato. “Stiamo lavorando assieme a Tyson Foods per approfondire la situazione e rafforzare le nostre prospettive riguardo il tema della salute e del benessere animali a livello di fornitori”, c’è scritto nella dichiarazione della multinazionale del fastfood.

Vandhana Bala, uno degli avvocati di Mercy for Animals, ha spiegato i retroscena dello scoop. Il video è stato registrato di recente da uno dei componenti del gruppo che ha presentato domanda per un lavoro in T&S. L’uomo avrebbe lavorato presso l’azienda agricola per circa quattro settimane e durante quel periodo ha assistito ad oltre 100 casi di abuso e crudeltà sui polli. L’attivista di Mercy for Animals ha poi verificato diverse atrocità commesse sugli animali della T&S: i polli sono stipati in baracche dove rimangono sempre a contatto con le proprie feci prima di essere trasportati al macello; poi vengono spinti a crescere molto in fretta finendo per essere paralizzati dal loro peso. Decine di migliaia di polli vengono quotidianamente trasportati in un macello di Union City, nel Tennessee, dedicato esclusivamente alla creazione di carne per il classico Chicken McNuggets e altri prodotti di pollo per McDonald’s. “E’ importante per McDonald’s prendere una posizione etica contro questo tipo di orribili forme istituzionalizzate di maltrattamento degli animali”, ha dichiarato Bala al quotidiano Usa Today che a sua volta ha provato, senza ottenere risposta, a porre alcune domande ai responsabili dell’allevamento incriminato. McDonald’s, più volte nel mirino di animalisti e associazioni di consumatori, nel marzo 2015 aveva rivisto diversi ingredienti del proprio menù nei suoi ristoranti americani iniziando ad utilizzare polli privi di antibiotici e latte parzialmente scremato proveniente da mucche non cresciute con l’ormone artificiale rbST.

Infine, il video che ha suscitato le proteste di Tyson Food Inc. e McDonald’s è l’ultimo di una serie di denunce da parte di gruppi animalisti che cercano di mettere in luce le brutalità e le cattive condizioni di vita di pollame e bestiame allevato con fini commerciali. Tra gli obiettivi dei blitz animalisti, praticati in Italia ultimamente dall’associazione Essere Animali, c’è anche quello di un controllo più rigoroso sugli allevamenti del cibo che mangiamo anche se per molti legislatori in stati come Iowa, Missouri e Kansas, è avvenuto esatto contrario, sventolando sotto al naso degli animalisti la possibilità di multe salate, o addirittura il carcere, per aver girato video sotto copertura all’interno di un luogo di lavoro che vieta questa pratica.

Fonte: www.ilfattoquotidiano.it     di Davide Turrini | 28 agosto 2015