Il Parlamento europeo non autorizza il MAIS geneticamente modificato della MONSANTO

La multinazionale avrebbe diffuso prodotti tossiciMaistesto

Il Parlamento europeo, riunito in seduta plenaria, ha detto no alla decisione della Commissione europea di autorizzare l’uso del mais geneticamente modificato della Monsanto, la multinazionale produttrice non solo di sementi OGM (organismo geneticamente modificato,ndr) ma anche del discusso erbicida Roundup: ci sono stati 403 voti favorevoli e 238 contrari. La motivazione risiede nel fatto di preservare alti livelli di salute e di tutelare l’ambiente all’interno dei suoi confini. Il problema rimane nelle modalità del processo di autorizzazione che danno adito sempre a nuove revisioni e lasciano spazi troppo ampi di manovra alle lobby che tutelano gli interessi delle multinazionali e consentono di ignorare chi vuole tutelare invece la salute e gli interessi dei cittadini. Esistono molte organizzazioni che sottolineano come Monsanto negli ultimi decenni si sia occupata di realizzare prodotti altamente tossici che hanno danneggiato l’ambiente e causato la morte di migliaia di persone.
LE SOSTANZE: tra le sostanze tossiche ci sono la PCB, sostanza che mette in pericolo gli animali e la fertilità umana: la 2,4,5-T, componente utilizzato per la produzione dell’Agente Arancio durante la guerra del Vietnam e che continua a causare tumori e malformazioni alla nascita; vi sono inoltre ilRoundup, l’erbicida più utilizzato nel mondo, fonte di scandalo ambientale e grave minaccia per la salute. Si tratta di un prodotto a base di glifosato, una sostanza ora riconosciuta dall’OMS(organizzazione mondiale della sanità,ndr) come probabile cancerogeno umano. Ultimo, il lasso,erbicida attualmente proibito in Europa.

23-12-2015

fonte: IlMeteo.it

“La Pubblicità di Natale è razzista”. Coca Cola costretta a ritirare lo spot in Messico

La pubblicità trasmessa in Messico rimossa da YouTube dopo le polemiche

Bufera sulla pubblicità di Natale della Coca Cola trasmessa in Messico.

Il video è stato rimosso da YouTube dopo che lo spot è stato accusato di razzismo. Nel video un gruppo di giovani arriva in una comunità indigena nello stato di Oxaca per fare l’albero di Natale e per distribuire la bevanda. In rete ci sono state proteste: secondo molti lo spot lede la dignità delle comunità native messicane. Alcune associazioni di consumatori hanno invece fatto notare come l’obesità sia un grosso problema tra quelle popolazioni e hanno quindi giudicato poco opportuna la trasmissione dello spot .

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Approfondimento: Coca-Cola ritira uno spot natalizio accusato di essere discriminatorio e dannoso per la salute delle popolazioni indigene in Messico

Due nuovi report sul TTIP: ISDS e Agricoltura

La campagna STOP TTIP Italia e Fairwatch pubblicano due nuovi dossier, relativi all’ISDS ed agli impatti del TTIP sull’Agricoltura.

“PATTO COL DIAVOLO” – Come e perché la clausola di protezione degli investimenti (ISDS) prevista nel TTIP minaccia la capacità di legiferare delle istituzioni, restringendo il perimetro della democrazia.

Dossier a cura della Campagna Stop TTIP Italia – Novembre 2015
Autori: Elena Mazzoni e Francesco Panié (Campagna Stop TTIP Italia) e con il contributo di Monica Di Sisto e Alberto Zoratti (Fairwatch)

Per scaricare il report sull’ISDS: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/nov-2015-isds_patto-col-diavolo-by-campagna-stop-ttip-italia.pdf

Il fattore “C”: rischi e opportunità nel TTIP per il settore agroalimentare europeo

Risposta “carte alla mano” a chi sostiene che nel TTIP non si discute di sicurezza alimentare, e per aprire un dibattito pubblico serio su export, import, indicazioni geografiche e consumatori

Dossier a cura di Fairwatch per la Campagna Stop TTIP Italia – Novembre 2015 Autori: Monica Di Sisto

Per scaricare il report sull’Agricoltura: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/nov-2015_dossier-agricoltura-ttip-fairwatch.pdf

 

Fonte: Stop TTIP Italia – http://stop-ttip-italia.net/

TTIP, clima e green economy: il primo (inquietante) report italiano

Per scaricare il report: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/cop21-e-ttip-fairwatch.pdf

Quali sono gli impatti del TTIP sull’ambiente e il clima? Quali disposizioni garantiscono lo sviluppo sostenibile? Ecco la risposta, che non vi piacerà.

TTIP-clima-e-green-economy-il-primo-report-italiano-4-e1447428988330(Rinnovabili.it) – Una bomba ad orologeria, pronta a mandare in pezzi le proposte per il contrasto ai cambiamenti climatici che potrebbero uscire dalla COP 21. Questo è il TTIP, l’accordo sul commercio e gli investimenti che Stati Uniti e Unione europea stanno negoziando dal 2013. Lo sostiene il primo rapporto italiano sugli impatti ambientali del trattato sull’ambiente e il clima, scritto dalla ONG Fairwatch per la Campagna Stop TTIP Italia. Una ventina di pagine che analizzano e smontano, un pezzo alla volta, tutte le dichiarazioni concilianti della Commissione europea contenute nella proposta (prima filtrata e solo dopo pubblicata da Bruxelles) di un capitolo sullo sviluppo sostenibile nell’accordo. Il rapporto chiarisce subito che «non esiste alcun meccanismo vincolante che imponga ai Paesi il rispetto dei diritti dei lavoratori e dei vincoli ambientali», a differenza dei meccanismi di tutela degli investitori privati, «che prevedono il ricorso ad arbitrati con la possibilità per aziende private di chiedere compensazione economica in caso di politiche contrarie alle loro aspettative di profitto sugli investimenti». Fairwatch sottolinea che non vi sono appigli, nel testo proposto dalla Commissione europea, che permettano di individuare un reale impegno nell’applicare e implementare le disposizioni contenute negli accordi internazionali sull’ambiente: dal protocollo di Kyoto a quello di Montreal, fino alla Convenzione sulla biodiversità (CBD).

«Come tutto ciò possa risultare in una proposta ambiziosa sulla sostenibilità e come questo possa garantire un aumento degli standard di tutela e di protezione sociale e ambientale è impossibile capirlo. Soprattutto in un sistema di valori dove viene garantito il primato della libertà del mercato, della tutela degli investitori, dell’importanza della competizione internazionale rispetto alle economie locali».

In pratica, il TTIP trasformerebbe in carta straccia questi importanti patti multilaterali improntati allo sviluppo sostenibile. Eppure questo concetto, nato nel 1987 in seno alla Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo (WCED) è diventato parte integrante dell’architettura istituzionale dell’Unione europea con la firma del Trattato di Amsterdam (1997). La stessa commissaria europea al Commercio, Cecilia Malmström, ha dichiarato che «vogliamo utilizzare li accordi commerciali per fissare standard ambiziosi e vincolanti, per affrontare sfide globali come la protezione dell’ambiente e dei diritti del lavoro in un mondo globalizzato».

Tuttavia, incrociando i testi negoziali (textual proposals) resi pubblici dalle fughe di notizie con i position papers (documenti in cui la Commissione spiega la propria posizione nella trattativa), il rapporto evidenzia diverse incongruenze. L’ottimismo che traspare dai documenti di posizionamento sul rispetto degli obiettivi sul clima non trova riscontro nella textual proposal. Nulla costringe le parti a vincolare il commercio alla tutela della biodiversità o a specifici limiti di inquinamento: non esiste un tribunale legittimato a sospendere il TTIP in caso di violazioni. Nemmeno presa in considerazione la richiesta del Parlamento europeo di tutelare i governi che legiferano in favore del clima dalle denunce delle multinazionali. Si possono dunque ripetere situazioni come quella che, all’interno dell’accordo NAFTA tra USA, Messico e Canada, potrebbe costringere la provincia del Quebec a pagare un risarcimento di 250 milioni per aver vietato il fracking nel fiume San Lorenzo alla Lone Pine Resources.

Per scaricare il report: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/cop21-e-ttip-fairwatch.pdf

L’Università del Colorado restituisce a Coca-Cola un milione di dollari. Ultimo atto della polemica scoppiata in agosto sui finanziamenti occulti

Coca-Cola ha finanziato occultamente scienziati per spostare la colpa dell’obesità dalla cattiva alimentazione allo scarso esercizio fisico.

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La University of Colorado School of Medicine ha annunciato la restituzione di un milione di dollari ricevuti nel 2014 da Coca-Cola per creare il Global Energy Balance Network, un’organizzazione non profit di scienziati che sollecitava le persone all’attività fisica, minimizzando il legame tra bevande analcoliche e obesità. Secondo l’Università, la fonte del finanziamento ha distolto l’attenzione dall’obiettivo che doveva essere perseguito e dagli sforzi che l’Università sta facendo. Coca-Cola ha dichiarato che darà il milione di dollari restituito dall’Università del Colorado all’organizzazione Boys & Girls Clubs of America.

Questa notizia rappresenta l’ultimo sviluppo di una vicenda iniziata in agosto, quando un articolo del New York Times aveva svelato il finanziamento occulto di Coca-Cola al Global Energy Balance Network che non figurava nel sito dell’organizzazione (le cronache ricordano di un video dove il vice-presidente  Steven N. Blair in cui invitava a concentrarsi solo sull’attività fisica, negando l’importanza della dieta per combattere l’obesità).

Un video negava l’importanza della dieta per combattere l’obesità
La polemica che ne era seguita aveva indotto l’amministratore delegato di Coca-Cola, Kuhtar Kent, a promettere maggiore trasparenza sui finanziamenti che vengono concessi a organizzazioni ed esperti accademici nel campo della salute. E così, in ottobre, Coca-Cola ha pubblicato i destinatari statunitensi di 120 milioni di dollari, a partire dal 2010. Dopo che i finanziamenti sono diventati pubblici, l’Academy of Nutrition and Dietetics, la più grande organizzazioni di nutrizionisti degli Usa, ha comunicato che la sponsorizzazione di Coca-Cola terminerà alla fine dell’anno, così come farà l’Academy of Pediatrics, perché non condividono più gli stessi valori.

Si tratta dell’ennesimo episodio sul conflitto di interessi che anche in Italia rappresenta un grosso problema, come abbiamo evidenziato in diversi articoli chiamando in causa Andrea Ghiselli del Crea e altri liberi professionisti come Eugenio Del Toma.

Per approfondire:

Coca-Cola ha finanziato occultamente scienziati per spostare la colpa dell’obesità dalla cattiva alimentazione allo scarso esercizio fisico. In rete i finanziamenti

Fonte: ilfattoalimentare.it 13-11-2015

Nuovi trend alimentari negli Usa, e le multinazionali cercano di adeguarsi

Le vendite di prodotti confezionati e pronti sono in calo costante, non solo nella grandi città a in modo uniforme in tutto il Paese. Le multinazionali rispondono a questo cambiamento proponendo alimenti nuovi, che seguano questi trend: tagliano quindi gli zuccheri aggiunti, gli aromi artificiali, offrono versioni light dei tradizionali prodotti oppure optano per l’integrale.

Negli Stati Uniti i consumatori stanno drasticamente cambiando le abitudini alimentari. Le vendite di prodotti confezionati e pronti sono in calo costante, non solo nella grandi città a in modo uniforme in tutto il Paese. La conseguenza? Anche gli acquisti nei supermercati stanno virando in altre direzioni: i surgelati hanno subito un calo del 12% dal 2007 al 2013, il consumo di bevande a base di soda è sceso del 25% a partire dal 1998 così come quello di cereali zuccherati per la colazione sempre del 25% a partire dal 2000.

Questo perché i consumatori sono più informati, conoscono gli ingredienti che vengono aggiunti agli alimenti industriali per renderli più appetibili sia a livello estetico che in fatto di sapore. Per questo i prodotti confezionati, per quanto comodi e gustosi sono sempre meno acquistati: i cittadini sanno che per la salute non sono la soluzione migliore. Le multinazionali rispondono a questo cambiamento proponendo alimenti nuovi, che seguano questi trend: tagliano quindi gli zuccheri aggiunti, gli aromi artificiali, offrono versioni light dei tradizionali prodotti oppure optano per l’integrale. Tuttavia, come sottolineano gli autori di un articolo del New York Times “A Seismic Shift in How People Eat”, tutto ciò non sarà sufficiente a salvarli.

Probabilmente la soluzione è la riduzione drastica dello zucchero, la riduzione degli ingredienti e la selezione di prodotti locali e biologici, soprattutto più frutta, verdura e alimenti integrali sviluppando maggiori offerte fresche. Si tratta quindi, per le grandi multinazionali, di modificare la catena di approvvigionamento, ristruttura, cercare nuove soluzione: investimenti notevoli, che rappresentano però l’unica soluzione per salvarsi.

Armi, Made in Italy che vola: “Export 30 milioni in aree in guerra del Nord Africa”

Secondo l’ultimo rapporto dell’istituto “Archivio Disarmo” dal titolo “Armi leggere, guerre pesanti”, nel 2014 le esportazioni italiane di pistole, fucili e carabine sono state pari a 453 milioni, lievemente inferiori al 2013, ma superiori alla media del decennio. Proprio nel momento in cui si prepara un intervento armato in Libia di cui l’Italia dovrebbe assumere il comando, l’eventuale coalizione internazionale potrebbe trovarsi puntati contro armamenti fabbricati nella Penisola

Fonte: Il Fatto Quotidiano – 23 maggio 2015

Dal profondo Nord della Val Trompia, terra di fabbriche di armi e di leghisti, non si è mai interrotto il flusso di pistole, fucili e proiettili verso quelle parti dell’Africa che ribollono di tensioni e conflitti e da cui fuggono a decine di migliaia i disperati che cercano di scampare alle carneficine. Anche l’anno passato, con la Libiadilaniata dalle faide tra clan e senza più un potere centrale riconoscibile, e il resto del Maghreb, dall’Algeria alla Tunisiaall’Egitto, sempre sul punto di esplodere, sono andati assai bene gli affari delle imprese italiane, Beretta in testa. Nel complesso sono ammontate a circa 30 milioni di euro le esportazioni di pistole, fucili, carabine e simili verso quelle regioni. Insieme al Nord Africa anche il Medio Oriente, dall’Arabia Saudita alla Siria, compresi Iran e Iraq sotto l’attacco degli assassini del Califfato dell’Isis, ha ricevuto dall’Italia un buon numero di pistole e fucili.

Questi dati preoccupanti emergono da un corposo rapporto dell’istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo dal titolo Armi leggere, guerre pesanti curato da Antonio Lamanna e da Maurizio Simoncelli. I dati utilizzati sono quelli ufficiali contenuti nel database dell’Istat. Le conclusioni fanno riflettere: nel 2014 le esportazioni italiane di questi micidiali strumenti sono state pari a 453 milioni, leggermente inferiori a quelle dell’anno precedente, ma superiori alla media delle esportazioni del decennio. In sostanza dallo studio viene fuori che in questa lunga fase di crisi soprattutto delle esportazioni, l’industria italiana delle armi è una delle poche a reggere bene la botta senza subire sostanziali effetti recessivi.

La produzione e l’esportazione di armi ai quattro angoli del pianeta contribuisce alla ricchezza della Val Trompia (provincia di Brescia) e garantisce il lavoro a migliaia di operai di quella zona. Il rovescio della medaglia, però, è che quei prodotti vengono venduti con assoluta disinvoltura (anche se ovviamente nel sostanziale rispetto delle leggi e dei trattati internazionali) pure a paesi dove infuriano le guerre e a quelli segnalati da diverse organizzazioni internazionali come Amnesty International, Human Right e Escola de Pau, per le reiterate violazioni dei diritti umanie per situazioni di tensione o di conflitto armato. Nazioni come l’Ucraina o la Russia, la Colombia e il Messico. In pratica è ragionevole supporre che le armi italiane contribuiscano a rendere ancora più aspri e sanguinosi i conflitti in atto.

Nel caso del Nord Africa c’è un di più. Proprio nel momento in cui a livello internazionale si prepara un intervento armato in Libia di cui l’Italia dovrebbe assumere formalmente il comando con l’intento di interrompere il flusso di migranti organizzato da bande criminali, lo studio di Archivio disarmo attesta che dalla stessa Italia partono a decine di migliaia le armi destinate a quei paesi. Ordigni che con ogni probabilità saranno usati anche e forse soprattutto da quei mercanti di morte contro i quali vengono inviate le nostre missioni militari. C’è il rischio in pratica che da una parte e dall’altra si sparino proprio con le stesse armi made in Italy.

Al primo posto tra i paesi importatori di armi leggere italiane ci sono gli Stati Uniti con il 42% del totale. In Usa le armi italiane sono assai apprezzate, soprattutto dopo che a metà degli anni 80 del secolo passato l’esercito americano decise di adottare per i propri soldati proprio una pistola Beretta, la famosa M9, rimasta in dotazione all’Us Army fino alla fine dell’anno passato. Negli Stati Uniti il possesso di armi per uso di difesa personale è un diritto garantito dalla Costituzione oculatamente protetto dalla Nra (National Rifle Association), ritenuta una delle lobby americane più potenti. Sull’altro piatto della bilancia c’è il fatto che proprio la diffusione di massa di ordigni micidiali è ritenuta la causa principale del numero abnorme di assassinii e di conflitti a fuoco. C’è poi il pericolo che l’enorme quantità di armi in circolazione amplifichi gli effetti dei ricorrenti momenti di tensione, come è successo di recente con il rinfocolarsi dei conflitti razziali.

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Articolo originale al link http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/23/armi-made-in-italy-che-vola-export-per-30-milioni-in-aree-in-guerra-del-nord-africa/1710009/

Oxfam: “l’UE non fa abbastanza contro gli abusi fiscali che generano disuguaglianza e nuovi poveri”

In un nuovo dossier Oxfam denuncia come resti ancora molto da fare contro gli abusi fiscali delle multinazionali. A farne le spese le casse degli Stati, alleggerite di 240 miliardi di dollari l’anno, e i cittadini con drastici tagli dei servizi pubblici.
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A un anno dallo scandalo LuxLeaks, che ha gettato luce sui trattamenti fiscali concessi tra il 2002 e il 2010 dalle autorità fiscali lussemburghesi a più di 300 multinazionali del calibro di Pepsi, Ikea, Deutsche Bank e Apple, Oxfam denuncia in un nuovo dossier quanto resti da fare per combattere l’elusione fiscale e la pianificazione fiscale aggressiva delle multinazionali che colpisce le casse degli Stati e i servizi offerti ai cittadini, generando nuovi poveri e un aumento della disuguaglianza economica e sociale. Il 5 novembre 2014, l’inchiesta condotta da un pool internazionale di giornalisti investigativi (ICIJ – The International Consortium of Investigative Journalists) e pubblicata dai maggiori quotidiani del mondo, aveva infatti svelato gli accordi fiscali ottenuti con l’assistenza di un colosso mondiale dei servizi professionali come PricewaterhouseCoopers (PwC) e siglati in totale segretezza. Concessioni fiscali che avallavano il trasferimento di utili, realizzati altrove dalle compagnie, in una giurisdizione a tassazione agevolata come il Lussemburgo, permettendo alle multinazionali di ‘ottimizzare’ – alias alleggerire – il proprio carico fiscale su scala globale.

Leggi l’articolo su oxfamitalia.org e leggi il dossier