TTIP, clima e green economy: il primo (inquietante) report italiano

Per scaricare il report: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/cop21-e-ttip-fairwatch.pdf

Quali sono gli impatti del TTIP sull’ambiente e il clima? Quali disposizioni garantiscono lo sviluppo sostenibile? Ecco la risposta, che non vi piacerà.

TTIP-clima-e-green-economy-il-primo-report-italiano-4-e1447428988330(Rinnovabili.it) – Una bomba ad orologeria, pronta a mandare in pezzi le proposte per il contrasto ai cambiamenti climatici che potrebbero uscire dalla COP 21. Questo è il TTIP, l’accordo sul commercio e gli investimenti che Stati Uniti e Unione europea stanno negoziando dal 2013. Lo sostiene il primo rapporto italiano sugli impatti ambientali del trattato sull’ambiente e il clima, scritto dalla ONG Fairwatch per la Campagna Stop TTIP Italia. Una ventina di pagine che analizzano e smontano, un pezzo alla volta, tutte le dichiarazioni concilianti della Commissione europea contenute nella proposta (prima filtrata e solo dopo pubblicata da Bruxelles) di un capitolo sullo sviluppo sostenibile nell’accordo. Il rapporto chiarisce subito che «non esiste alcun meccanismo vincolante che imponga ai Paesi il rispetto dei diritti dei lavoratori e dei vincoli ambientali», a differenza dei meccanismi di tutela degli investitori privati, «che prevedono il ricorso ad arbitrati con la possibilità per aziende private di chiedere compensazione economica in caso di politiche contrarie alle loro aspettative di profitto sugli investimenti». Fairwatch sottolinea che non vi sono appigli, nel testo proposto dalla Commissione europea, che permettano di individuare un reale impegno nell’applicare e implementare le disposizioni contenute negli accordi internazionali sull’ambiente: dal protocollo di Kyoto a quello di Montreal, fino alla Convenzione sulla biodiversità (CBD).

«Come tutto ciò possa risultare in una proposta ambiziosa sulla sostenibilità e come questo possa garantire un aumento degli standard di tutela e di protezione sociale e ambientale è impossibile capirlo. Soprattutto in un sistema di valori dove viene garantito il primato della libertà del mercato, della tutela degli investitori, dell’importanza della competizione internazionale rispetto alle economie locali».

In pratica, il TTIP trasformerebbe in carta straccia questi importanti patti multilaterali improntati allo sviluppo sostenibile. Eppure questo concetto, nato nel 1987 in seno alla Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo (WCED) è diventato parte integrante dell’architettura istituzionale dell’Unione europea con la firma del Trattato di Amsterdam (1997). La stessa commissaria europea al Commercio, Cecilia Malmström, ha dichiarato che «vogliamo utilizzare li accordi commerciali per fissare standard ambiziosi e vincolanti, per affrontare sfide globali come la protezione dell’ambiente e dei diritti del lavoro in un mondo globalizzato».

Tuttavia, incrociando i testi negoziali (textual proposals) resi pubblici dalle fughe di notizie con i position papers (documenti in cui la Commissione spiega la propria posizione nella trattativa), il rapporto evidenzia diverse incongruenze. L’ottimismo che traspare dai documenti di posizionamento sul rispetto degli obiettivi sul clima non trova riscontro nella textual proposal. Nulla costringe le parti a vincolare il commercio alla tutela della biodiversità o a specifici limiti di inquinamento: non esiste un tribunale legittimato a sospendere il TTIP in caso di violazioni. Nemmeno presa in considerazione la richiesta del Parlamento europeo di tutelare i governi che legiferano in favore del clima dalle denunce delle multinazionali. Si possono dunque ripetere situazioni come quella che, all’interno dell’accordo NAFTA tra USA, Messico e Canada, potrebbe costringere la provincia del Quebec a pagare un risarcimento di 250 milioni per aver vietato il fracking nel fiume San Lorenzo alla Lone Pine Resources.

Per scaricare il report: https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2014/02/cop21-e-ttip-fairwatch.pdf

L’Università del Colorado restituisce a Coca-Cola un milione di dollari. Ultimo atto della polemica scoppiata in agosto sui finanziamenti occulti

Coca-Cola ha finanziato occultamente scienziati per spostare la colpa dell’obesità dalla cattiva alimentazione allo scarso esercizio fisico.

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La University of Colorado School of Medicine ha annunciato la restituzione di un milione di dollari ricevuti nel 2014 da Coca-Cola per creare il Global Energy Balance Network, un’organizzazione non profit di scienziati che sollecitava le persone all’attività fisica, minimizzando il legame tra bevande analcoliche e obesità. Secondo l’Università, la fonte del finanziamento ha distolto l’attenzione dall’obiettivo che doveva essere perseguito e dagli sforzi che l’Università sta facendo. Coca-Cola ha dichiarato che darà il milione di dollari restituito dall’Università del Colorado all’organizzazione Boys & Girls Clubs of America.

Questa notizia rappresenta l’ultimo sviluppo di una vicenda iniziata in agosto, quando un articolo del New York Times aveva svelato il finanziamento occulto di Coca-Cola al Global Energy Balance Network che non figurava nel sito dell’organizzazione (le cronache ricordano di un video dove il vice-presidente  Steven N. Blair in cui invitava a concentrarsi solo sull’attività fisica, negando l’importanza della dieta per combattere l’obesità).

Un video negava l’importanza della dieta per combattere l’obesità
La polemica che ne era seguita aveva indotto l’amministratore delegato di Coca-Cola, Kuhtar Kent, a promettere maggiore trasparenza sui finanziamenti che vengono concessi a organizzazioni ed esperti accademici nel campo della salute. E così, in ottobre, Coca-Cola ha pubblicato i destinatari statunitensi di 120 milioni di dollari, a partire dal 2010. Dopo che i finanziamenti sono diventati pubblici, l’Academy of Nutrition and Dietetics, la più grande organizzazioni di nutrizionisti degli Usa, ha comunicato che la sponsorizzazione di Coca-Cola terminerà alla fine dell’anno, così come farà l’Academy of Pediatrics, perché non condividono più gli stessi valori.

Si tratta dell’ennesimo episodio sul conflitto di interessi che anche in Italia rappresenta un grosso problema, come abbiamo evidenziato in diversi articoli chiamando in causa Andrea Ghiselli del Crea e altri liberi professionisti come Eugenio Del Toma.

Per approfondire:

Coca-Cola ha finanziato occultamente scienziati per spostare la colpa dell’obesità dalla cattiva alimentazione allo scarso esercizio fisico. In rete i finanziamenti

Fonte: ilfattoalimentare.it 13-11-2015

Nuovi trend alimentari negli Usa, e le multinazionali cercano di adeguarsi

Le vendite di prodotti confezionati e pronti sono in calo costante, non solo nella grandi città a in modo uniforme in tutto il Paese. Le multinazionali rispondono a questo cambiamento proponendo alimenti nuovi, che seguano questi trend: tagliano quindi gli zuccheri aggiunti, gli aromi artificiali, offrono versioni light dei tradizionali prodotti oppure optano per l’integrale.

Negli Stati Uniti i consumatori stanno drasticamente cambiando le abitudini alimentari. Le vendite di prodotti confezionati e pronti sono in calo costante, non solo nella grandi città a in modo uniforme in tutto il Paese. La conseguenza? Anche gli acquisti nei supermercati stanno virando in altre direzioni: i surgelati hanno subito un calo del 12% dal 2007 al 2013, il consumo di bevande a base di soda è sceso del 25% a partire dal 1998 così come quello di cereali zuccherati per la colazione sempre del 25% a partire dal 2000.

Questo perché i consumatori sono più informati, conoscono gli ingredienti che vengono aggiunti agli alimenti industriali per renderli più appetibili sia a livello estetico che in fatto di sapore. Per questo i prodotti confezionati, per quanto comodi e gustosi sono sempre meno acquistati: i cittadini sanno che per la salute non sono la soluzione migliore. Le multinazionali rispondono a questo cambiamento proponendo alimenti nuovi, che seguano questi trend: tagliano quindi gli zuccheri aggiunti, gli aromi artificiali, offrono versioni light dei tradizionali prodotti oppure optano per l’integrale. Tuttavia, come sottolineano gli autori di un articolo del New York Times “A Seismic Shift in How People Eat”, tutto ciò non sarà sufficiente a salvarli.

Probabilmente la soluzione è la riduzione drastica dello zucchero, la riduzione degli ingredienti e la selezione di prodotti locali e biologici, soprattutto più frutta, verdura e alimenti integrali sviluppando maggiori offerte fresche. Si tratta quindi, per le grandi multinazionali, di modificare la catena di approvvigionamento, ristruttura, cercare nuove soluzione: investimenti notevoli, che rappresentano però l’unica soluzione per salvarsi.

Armi, Made in Italy che vola: “Export 30 milioni in aree in guerra del Nord Africa”

Secondo l’ultimo rapporto dell’istituto “Archivio Disarmo” dal titolo “Armi leggere, guerre pesanti”, nel 2014 le esportazioni italiane di pistole, fucili e carabine sono state pari a 453 milioni, lievemente inferiori al 2013, ma superiori alla media del decennio. Proprio nel momento in cui si prepara un intervento armato in Libia di cui l’Italia dovrebbe assumere il comando, l’eventuale coalizione internazionale potrebbe trovarsi puntati contro armamenti fabbricati nella Penisola

Fonte: Il Fatto Quotidiano – 23 maggio 2015

Dal profondo Nord della Val Trompia, terra di fabbriche di armi e di leghisti, non si è mai interrotto il flusso di pistole, fucili e proiettili verso quelle parti dell’Africa che ribollono di tensioni e conflitti e da cui fuggono a decine di migliaia i disperati che cercano di scampare alle carneficine. Anche l’anno passato, con la Libiadilaniata dalle faide tra clan e senza più un potere centrale riconoscibile, e il resto del Maghreb, dall’Algeria alla Tunisiaall’Egitto, sempre sul punto di esplodere, sono andati assai bene gli affari delle imprese italiane, Beretta in testa. Nel complesso sono ammontate a circa 30 milioni di euro le esportazioni di pistole, fucili, carabine e simili verso quelle regioni. Insieme al Nord Africa anche il Medio Oriente, dall’Arabia Saudita alla Siria, compresi Iran e Iraq sotto l’attacco degli assassini del Califfato dell’Isis, ha ricevuto dall’Italia un buon numero di pistole e fucili.

Questi dati preoccupanti emergono da un corposo rapporto dell’istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo dal titolo Armi leggere, guerre pesanti curato da Antonio Lamanna e da Maurizio Simoncelli. I dati utilizzati sono quelli ufficiali contenuti nel database dell’Istat. Le conclusioni fanno riflettere: nel 2014 le esportazioni italiane di questi micidiali strumenti sono state pari a 453 milioni, leggermente inferiori a quelle dell’anno precedente, ma superiori alla media delle esportazioni del decennio. In sostanza dallo studio viene fuori che in questa lunga fase di crisi soprattutto delle esportazioni, l’industria italiana delle armi è una delle poche a reggere bene la botta senza subire sostanziali effetti recessivi.

La produzione e l’esportazione di armi ai quattro angoli del pianeta contribuisce alla ricchezza della Val Trompia (provincia di Brescia) e garantisce il lavoro a migliaia di operai di quella zona. Il rovescio della medaglia, però, è che quei prodotti vengono venduti con assoluta disinvoltura (anche se ovviamente nel sostanziale rispetto delle leggi e dei trattati internazionali) pure a paesi dove infuriano le guerre e a quelli segnalati da diverse organizzazioni internazionali come Amnesty International, Human Right e Escola de Pau, per le reiterate violazioni dei diritti umanie per situazioni di tensione o di conflitto armato. Nazioni come l’Ucraina o la Russia, la Colombia e il Messico. In pratica è ragionevole supporre che le armi italiane contribuiscano a rendere ancora più aspri e sanguinosi i conflitti in atto.

Nel caso del Nord Africa c’è un di più. Proprio nel momento in cui a livello internazionale si prepara un intervento armato in Libia di cui l’Italia dovrebbe assumere formalmente il comando con l’intento di interrompere il flusso di migranti organizzato da bande criminali, lo studio di Archivio disarmo attesta che dalla stessa Italia partono a decine di migliaia le armi destinate a quei paesi. Ordigni che con ogni probabilità saranno usati anche e forse soprattutto da quei mercanti di morte contro i quali vengono inviate le nostre missioni militari. C’è il rischio in pratica che da una parte e dall’altra si sparino proprio con le stesse armi made in Italy.

Al primo posto tra i paesi importatori di armi leggere italiane ci sono gli Stati Uniti con il 42% del totale. In Usa le armi italiane sono assai apprezzate, soprattutto dopo che a metà degli anni 80 del secolo passato l’esercito americano decise di adottare per i propri soldati proprio una pistola Beretta, la famosa M9, rimasta in dotazione all’Us Army fino alla fine dell’anno passato. Negli Stati Uniti il possesso di armi per uso di difesa personale è un diritto garantito dalla Costituzione oculatamente protetto dalla Nra (National Rifle Association), ritenuta una delle lobby americane più potenti. Sull’altro piatto della bilancia c’è il fatto che proprio la diffusione di massa di ordigni micidiali è ritenuta la causa principale del numero abnorme di assassinii e di conflitti a fuoco. C’è poi il pericolo che l’enorme quantità di armi in circolazione amplifichi gli effetti dei ricorrenti momenti di tensione, come è successo di recente con il rinfocolarsi dei conflitti razziali.

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Articolo originale al link http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/23/armi-made-in-italy-che-vola-export-per-30-milioni-in-aree-in-guerra-del-nord-africa/1710009/

Oxfam: “l’UE non fa abbastanza contro gli abusi fiscali che generano disuguaglianza e nuovi poveri”

In un nuovo dossier Oxfam denuncia come resti ancora molto da fare contro gli abusi fiscali delle multinazionali. A farne le spese le casse degli Stati, alleggerite di 240 miliardi di dollari l’anno, e i cittadini con drastici tagli dei servizi pubblici.
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A un anno dallo scandalo LuxLeaks, che ha gettato luce sui trattamenti fiscali concessi tra il 2002 e il 2010 dalle autorità fiscali lussemburghesi a più di 300 multinazionali del calibro di Pepsi, Ikea, Deutsche Bank e Apple, Oxfam denuncia in un nuovo dossier quanto resti da fare per combattere l’elusione fiscale e la pianificazione fiscale aggressiva delle multinazionali che colpisce le casse degli Stati e i servizi offerti ai cittadini, generando nuovi poveri e un aumento della disuguaglianza economica e sociale. Il 5 novembre 2014, l’inchiesta condotta da un pool internazionale di giornalisti investigativi (ICIJ – The International Consortium of Investigative Journalists) e pubblicata dai maggiori quotidiani del mondo, aveva infatti svelato gli accordi fiscali ottenuti con l’assistenza di un colosso mondiale dei servizi professionali come PricewaterhouseCoopers (PwC) e siglati in totale segretezza. Concessioni fiscali che avallavano il trasferimento di utili, realizzati altrove dalle compagnie, in una giurisdizione a tassazione agevolata come il Lussemburgo, permettendo alle multinazionali di ‘ottimizzare’ – alias alleggerire – il proprio carico fiscale su scala globale.

Leggi l’articolo su oxfamitalia.org e leggi il dossier

Quanto è sostenibile la tua scatoletta di tonno preferita?

 

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Abbiamo valutato gli 11 marchi di tonno più diffusi sui nostri scaffali, che rappresentano circa l’80% del mercato italiano, in base alle loro politiche di sostenibilità e equità, le specie catturate, i metodi di pesca usati e le informazioni che forniscono ai consumatori.

Dalla scorsa edizione tanti dimostrano di lavorare per una pesca sostenibile e per la piena trasparenza, ma c’è anche chi continua ad essere completamente dipendente da una pesca distruttiva.

Prima di mettere una scatoletta nel tuo carrello della spesa assicurati di sceglierne una davvero sostenibile!

greenpeace.it

Guarda la classifica e firma per chiedere maggiore sostenibilità a MareBlu

 

Di seguito un articolo da Corriere.it

ROMA – «Cinque anni fa, quando abbiamo iniziato questa campagna, quasi nessuna azienda aveva adottato criteri di sostenibilità nella scelta del tonno da mettere nelle scatolette. Oggi quasi tutti i marchi che abbiamo analizzato hanno politiche di acquisto scritte nero su bianco». E’ con ottimismo che Giorgia Monti commenta i risultati della classifica “Rompiscatole” di Greenpeace. Una campagna, giunta quest’anno alla sua quarta edizione, nata per valutare la sostenibilità del tonno in scatola venduto in Italia: circa 144 mila tonnellate per un giro di affari che supera il miliardo di euro.

A due anni dall’ultima classifica, le aziende che si stanno impegnando per contrastare la pesca distruttiva salgono di posizione, mentre chi non mantiene le promesse finisce in fondo. Per la prima volta quest’anno conquista la fascia verde un marchio italiano, AsdoMar. Un riconoscimento ottenuto grazie all’attenzione dedicata dall’azienda alle tecniche di pesca sostenibile, come la pesca a canna usata nel 30% delle produzioni. Seguono poi Esselunga e Conad, che scalano la fascia arancione grazie ai progressi nelle politiche di acquisto per evitare metodi di pesca distruttivi, anche se dovranno esigere dai fornitori informazioni più dettagliate sui metodi di pesca. Resta in quarta posizione RioMare che, a detta di Greenpeace, sta lavorando per aumentare la produzione di pesca sostenibile, anche se molte delle scatolette vendute contengono ancora tonno pescato con metodi distruttivi.

Declassato in fascia rossa Mareblu che, secondo l’organizzazione, sembra non voglia proprio darsi da fare. «Molte aziende – ha spiegato Monti – hanno ormai capito che sempre più consumatori privilegiano prodotti che non danneggiano l’ambiente. Mareblu continua invece a comportarsi in maniera irresponsabile tradendo la nostra fiducia. Deve impegnarsi per rispettare gli impegni presi per garantire una pesca equa nel completo rispetto dei diritti umani».

fonte: corriere.it 27-10-2015

Guarda la classifica e firma per chiedere maggiore sostenibilità a MareBlu

Unilever e il termometro dei diritti negati

A raccontare tra le lacrime la verità è la signora Esther Rani, sessantacinquenne madre di un giovane operaio che lavorava per Unilever. “A 19 anni mio figlio Britto è andato a lavorare in fabbrica. Mentre era lì si lamentava sempre di dolori alla testa e di altri fastidi, ma continuava a recarsi a lavoro nonostante il malessere per contribuire alle misere entrate della nostra famiglia. Era il nostro unico figlio, mio marito e io stavamo invecchiando e abbiamo pensato che ci avrebbe aiutati con quel lavoro.Ma la salute di Britto peggiorava e la famiglia non sapeva cosa fare: “A un certo punto non se l’è più sentita di continuare e ha lasciato il lavoro. Un giorno la febbre era molto alta, aveva la nausea e ha vomitato sangue. Le analisi hanno dato il fegato per spacciato. Con enormi sacrifici e chiedendo prestiti a chi poteva aiutarci l’abbiamo fatto ricoverare in ospedale, dove ci hanno detto che era necessario sottoporlo a dialisi. Per assicurargli le cure abbiamo dovuto vendere la casa, la nostra terra, gli animali e, pur avendo venduto tutto, non ce l’abbiamo fatta. Dopo 6 mesi passati a letto è morto. Non avevamo i soldi nemmeno per seppellirlo. Da allora in poi anche la nostra salute è peggiorata, mio marito sta sempre male e non abbiamo più nessuna fonte di reddito in famiglia.”

Altri operai hanno condiviso con Britto la sua triste sorte. Tutti avevano lavorato alla fabbrica di termometri di Unilever a Kodaikanal, chiusa 14 anni fa a seguito della rilevazione di altissimi indici di inquinamento da mercurio (risultati aggiornati allo scorso giugno segnalano ancora elevati residui di mercurio nella zona). Tutti erano stati esposti a questa potentissima tossina che intossica il fegato. L’azienda però, pur avendo dichiarato la chiusura della fabbrica nel 2001 a seguito delle denunce di Greenpeace e di altre realtà ambientaliste che avevano reso noti i retroscena della produzione, contesta le richieste degli ex dipendenti che imputano alla gestione della fabbrica i notevoli peggioramenti di salute dovuti all’esposizione al mercurio. I familiari dei lavoratori hanno infatti dichiarato che gli operai non erano nemmeno dotati di equipaggiamento protettivo, né venivano informati degli altissimi rischi che correvano a causa dei terribili impatti del mercurio sulla salute.

Lo scorso 25 settembre un comunicato stampa dell’organizzazione Kodai Mercury segnala che 45 vincitori di premi legati alla tutela ambientale e ai diritti umani provenienti da 30 Paesi (tra cui anche Vandana Shiva) hanno indirizzato una lettera a Paul Polman, direttore generale di Unilever insignito del premio 2015 “Champions of the Earth”. Cosa si chiede? Il testo integrale lo si può leggere qui ma, in poche parole, si invita Polman a non dimenticare che il premio porta con sé una “onerosa responsabilità” e a intervenire personalmente per assicurare una sistemazione dignitosa ai lavoratori e alle famiglie che hanno subito contaminazioni legate al mercurio, nonché per bonificare la zona secondo standard internazionali.

La fabbrica, di proprietà della Hindustan Unilever, rimane inoltre responsabile dell’inquinamento dell’area circostante che, dalla chiusura a oggi, non è mai stata bonificata, con gravi conseguenze per le foreste circostanti e le falde acquifere.

Purtroppo le famiglie non possono affrontare da sole le spese per l’assistenza medica di cui avrebbero bisogno. Hanno perciò cercato di convincere i proprietari della fabbrica a recuperare l’area e a sostenere le spese per le cure ospedaliere, attivando una campagna internazionale – con la possibilità di firmare una petizione per sostenere loro e la causa che vuole rendere concrete le parole di Polman, il quale ha fatto di politiche rispettose di lavoratori e ambiente la chiave distintiva del suo operato. Proprio il ruolo che ricopre gli permetterebbe di intraprendere azioni unilaterali che costringano la sede distaccata della Unilever ad assumersi le proprie responsabilità.

Un invito in questo senso proviene anche da Sofia Ashraf, faccia pulita ma piglio deciso. Sofia è una giovane cantante indiana originaria del Tamil Nadu, salita agli onori della cronaca – e diventata famosa – a suon di rap e diritti (snocciolati indossando un burqa). Il singolo “Kodaikanal Won’t”, nonostante tragga ispirazione da una hit meno impegnata e dalla discutibile poesia (Anaconda di Nicki Minaj), al di là dei rimandi di note rappresenta una durissima denuncia al sopruso: “Kodaikanal non si tirerà indietro” si avvisa, “fino a quando Unilever non riparerà ai danni”. Complici i social network, la campagna ha fatto il giro del mondo e il silenzio dei vertici non potrà durare ancora per molto. Aspettiamo anche noi la necessaria risposta.

 

fonte: unimondo.orgkodaikanal-wont

Congresso USA: fermate il TPP. Impediamo alla Monsanto e C. di realizzare il suo sogno

Congresso USA: fermate il TPP

Firma la Petizione (avaaz.org)

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Dodici Paesi hanno appena firmato un accordo segreto che regala alle multinazionali enormi poteri sul 40% dell’economia mondiale. Ma se agiamo rapidamente, possiamo impedire che il Congresso Americano lo approvi.

Si chiama TPP: un accordo commerciale che potrà censurare internet ma soprattutto dare a Monsanto e alle altre grandi multinazionali tutto quello che hanno sempre sognato. La buona notizia è che nel Congresso USA sta crescendo una opposizione sempre più ampia: se loro lo bloccano, il trattato è finito. E anche il dibattito su un accordo molto simile per l’Europa potrebbe subire un duro colpo.

Avaaz ha la possibilità unica di far arrivare fino ai senatori del Congresso USA il sostegno di cui hanno bisogno da parte dei cittadini di tutto il mondo per fermare l’assalto delle multinazionali alle nostre democrazie. Unisciti all’appello e condividilo con tutti.

Firma la Petizione (avaaz.org)

“Avaaz è un’organizzazione non governativa internazionale istituita nel 2007 a New York che promuove attivismo su tematiche quali il cambiamento climatico, i diritti umani, i diritti degli animali, la corruzione, la povertà e i conflitti. La sua missione dichiarata è quella di permettere che i processi decisionali di portata globale vengano influenzati dall’opinione pubblica. L’organizzazione opera in quindici lingue diverse, e conta, stando al sito ufficiale, circa 41 milioni di membri iscritti in 194 paesi.” (Wikipedia)

www.avaaz.org

Gelati: Nestlè e R&R si alleano, nasce un colosso da 3 miliardi

Dopo che Unilever ha rilevato la catena gelatiera italiana Grom con 65 punti vendita nel mondo, sta giungendo a conclusione la trattativa da 3 miliardi di euro tra Nestlè e la britannica R&R Ice Cream (presente anche in Italia con i marchi Del Monte e Oreo). Tra brand coinvolti Toblerone, Milka, Oreo, Del Monte (R&R), oltre che Motta, Cremeria, Antica Gelateria del Corso (Nestlè).

C’è aria di nozze nel mondo del gelato. E’ infatti in dirittura d’arrivo la trattative tra due giganti del settore, Nestlè e la R&R (fondo PAI Partners), per la creazione di una joint venture con impatto prevalentemente in Europa e Africa. Un’operazione da 3 miliardi di euro che coinvolgerà brand come Toblerone, Milka, Oreo, Del Monte (R&R), oltre che Motta, Cremeria, Antica Gelateria del Corso (Nestlè), con l’obiettivo di rafforzare le vendite mondiali.

R&R, controllata dal fondo private equity francese PAI, ha un fatturato di 900 milioni di euro, è il terzo player mondiale del gelato dopo Unilever e Nestlè ed è presente in Italia con un sito produttivo a Terni. La società è presente anche nel Regno Unito, in Germania, Francia, Polonia, Sud Africa e Australia. Il suo business è concentrato nel canale ‘in home’, ovvero quello che riguarda i gelati venduti nella grande distribuzione e consumati a casa. La Nestlè invece è leader nell”out home’, ovvero il gelato confezionato che si acquista fuori dalla grande distribuzione, nei bar o in gelateria. Alla joint venture, di cui la R&R ”entrerà a far parte nella sua interezza”, Nestlè – secondo quanto si apprende – ”contribuirà includendovi il business del gelato presente in Europa, Egitto, Filippine, Brasile e Argentina”. E farà parte della joint venture ”anche il business europeo dei surgelati, ad eccezione della pizza”. Una combinazione che ”garantirà alla joint venture la presenza in canali complementari sia nei mercati maturi che in quelli emergenti dall’emisfero nord a quello sud”.

A conclusioni dei colloqui e delle consultazioni sindacali e dopo il via libera delle autorità competenti, si darà luogo al nuovo assetto nel corso del 2016. Ad ognuna delle parti spetterà il 50% della nuova joint venture, che opererà in oltre 20 paesi impiegando più di 10.000 persone. La nuova joint venture avrà come Chairman l’attuale Executive Vice President Europa, Medio Oriente e Nord Africa di Nestlè Luis Cantarelli, mentre il Ceo sarà il numero uno di R&R Ibrahim Najafi. Il board di controllo sarà composto da Nestlè e PAI Partners in egual misura.
R&R e Nestlè collaborano già da 14 anni. Prima nel Regno Unito e in Irlanda, poi in Australia e Sud Africa, paesi in cui R&R ha la licenza dei marchi Nestlè.

Fonte ansa.it 06/10/2015