10 anni di impegno per nuovi stili di vita a Padova

10 anni di impegno per nuovi stili di vita a Padova:

un breve video sulla vita pastorale della Commissione Nuovi Stili di Vita

della diocesi di Padova (2006-2016)

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Questo breve video (20 minuti) presenta l’impegno della Commissione diocesana Nuovi Stili di Vita (diocesi di Padova), nell’animare tutta la realtà ecclesiale della Chiesa di Padova nel promuovere nuovi stili di vita durante questi 10 anni (dal 2006 al 2016).

Sono state tante le iniziative, le attività, le azioni e i laboratori della Commissione durante questi 10 anni di impegno. Riusciamo a raccontare solamente una parte, tutto il resto potete prendere visione scorrendo nel sito e nella pagina facebook: www.nuovistilidivitapadova.org

Auguriamo alla Commissione di continuare la propria missione, con lo stesso vigore, determinazione e passione. Oggi viene sostenuta dalla bella e importante enciclica Laudato si’ di papa Francesco Laudato si’.

Facciamo tantissimi auguri alla Commissione Nuovi Stili di Vita di Padova per il compleanno dei 10 anni di vita pastorale a favore dei nuovi stili di vita, con un vivo ringraziamento per tutto il lavoro svolto con tanta passione e dedizione, generando anche un nuovo stile di essere Chiesa oggi.

Parroco contro Parmalat, vende formaggi. Azienda boicottata perché non compra più da produttori genovesi

unnamedUna vendita di formaggi davanti alla chiesa per sostenere i produttori di latte genovesi dopo che Parmalat ha deciso di non rinnovare loro il contratto di acquisto: i produttori hanno rifiutato l’accordo a 25 centesimi a litro. L’iniziativa è di don Valentino Porcile, parroco della chiesa della Santissima Annunziata di Sturla che “tra domani e dopo domani si recherà a Rossiglione a conoscere tre caseifici”.
“Sabato e domenica – ha spiegato – in chiesa daremo un assaggio del loro formaggio, venderemo alcuni pezzi e prenderemo le prenotazioni per altro formaggio. Ma già la prossima domenica o quella ancora dopo arriveranno gli allevatori in parrocchia a vendere”. “L’iniziativa – ha detto don Porcile – che arriva dopo l’invito al boicottaggio dei prodotti Parmalat, serve per sostenere gli allevatori”. I produttori di latte genovesi, dopo l’intervento di Regione e Comune, hanno trovato un accordo per vendere, per il momento, il latte al Caseificio Pugliese di Lauriano (Torino), pare a 29 centesimi a litro.
(fonte: ANSA.it, Genova 13 aprile 2016)

Plasmon toglie l’olio di palma dai biscotti per bambini. Un risultato importante che dimostra l’efficacia della pressione dei consumatori

Biscotto-Plasmon-olio-di-palma-senza-Dopo decine di lettere inviate da mamme e papà indignati per la presenza di olio di palma nei biscotti Plasmon, una petizione online su Change.org e il nostro racconto di una mamma arrabbiata perché non ha mai avuto risposte dall’azienda sul tipo di olio vegetale usato nei biscotti, oggi Plasmon ha deciso di dire stop all’olio tropicale, creando addirittura un pagina web dedicata.

 

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Commercio: con gli accordi TTIP i piccoli imprenditori dell’agroalimentare saranno schiacciati

Lo confermano 2 rapporti diffusi dal Dipartimento dell’agricoltura Usa. Non soltanto creerà difficoltà serie, ma tornerà a favore degli stessi Stati Uniti in maniera prepotente rispetto ai benefici dell’Europa unita

15_02_17-ttip_slideROMA  – Sono 2 studi quasi manicali americani, diffusi dalla Campagna StopTtip, ad affermare chiaramente i benefici che gli Usa potranno trarre dagli accordi sul Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (in inglese, Transatlantic Trade and Investment Partnership, appunto: Ttip). Benefici che – secondo gli analisti statunitensi – saranno enormemente inferiori per l’Ue, che comunque non accenna a ritrattare il Trattato, in corso dal 2013 e che quando diverrà operativo si creerà la più grande area di libero scambio, dal momento che l’Unione Europea e gli Stati Uniti rappresentano la metà del Pil di tutto il mondo  e un terzo del commercio globale.

I rapporti Usa che offendono l’Ue. Il 5 gennaio 2016, il Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti, sulle implicazioni del partenariato transatlantico (Ttip) per il settore agricolo, diffonde un approfondito documento dal quale emerge, nero su bianco, fino a che punto l’Unione Europea risentirà dalla firma dell’ accordo.

Tre sono i punti fondamentali. 

1) – Innanzi tutto, si prevede l’eliminazione delle sole barriere tariffarie e dei contingenti  tariffari di importazione (Trq), la qual cosa farà sì che le esportazioni agricole degli Stati Uniti verso l’Ue  aumenteranno di 5,1 miliardi di euro rispetto ai livelli del 2011, mentre quelle dell’UE  verso gli Usa crescerebbero di appena 0,7 miliardi di euro (le esportazioni  agricole UE diminuirebbero dello 0,25%).

2) – Il secondo scenario anticipa anche l’eliminazione delle barriere non tariffarie (Ntm): nel settore agricolo, le Nmt riguardano la sicurezza alimentare e se fossero eliminate, le esportazioni Usa crescerebbero di ulteriori 3,8 miliardi di euro,  mentre quelle UE aumenterebbero di 1,1 miliardi.

3) – Il terzo scenario analizza come tutto ciò influenzerebbe la domanda dei consumatori, i quali si orienterebbero sempre più ad acquistare prodotti locali piuttosto che importati, cancellando così qualsiasi guadagno derivante  dalla rimozione delle barriere tariffarie (anche se questo è il principale obiettivo  dichiarato del Ttip). Un secondo rapporto dello stesso Dipartimento americano, ribadisce i concetti.

Un massacro per l’Ue e per l’Italia. La Campagna StopTtip è tra le pochissime realtà d’Europa a battersi contro un trattato a cui i media sembrano non pensare. Ed è l’osservatorio della Campagna stessa ad aver diffuso i due rapporti americani. “Il ministero dell’Agricoltura Usa –  spiega Monica Di Sisto, portavoce della CampagnaStop Ttip  – è onesto nell’ammettere che, se con il Ttip vuole accelerare il commercio tra Usa e Ue per prodotti agricoli e cibo, bisogna eliminare non tanto dazi e problemi di dogana, ma le regole che ancora oggi ci proteggono, in Europa, da ormoni della crescita, residui di pesticidi, cibi biotech e tossicità simili. Pur facendolo, saranno gli Usa a guadagnarci in esportazioni, fino a 1000 volte più dei nostri Paesi, e in settori già massacrati per l’economia italiana come latte, carni rosse, frutta, verdura, olio.

Il fattpre “C“, cioè la coscienza dei consumatori. Gli imponenti flussi di prodotti e servizi in arrivo dagli Stati Uniti satureranno il mercato europeo, che per oltre l’80% dei produttori italiani, piccoli e medi, è l’unico mercato possibile, diminuendo ulteriormente le loro possibilità di sopravvivenza. Gli Usa, però, hanno anche valutato un terzo scenario: se tutti noi cittadini consumatori e le imprese che lavorano in qualità e quelle amministrazioni locali che legano la promozione dei loro territori e culture a prodotti sani e non massificati, non si fideranno delle nuove regole, non ci sarà da guadagnare per nessuno, perché tutti i prodotti a rischio verranno lasciati nei mercati e negli scaffali, e chi li produrrà verrà punito dalle scelte sbagliate dei Governi. Come Campagna StopTtip, lo chiamiamo “fattore C”: quello della coscienza di cittadini e consumatori, che si opporrà fino all’ultimo a politiche sbagliate come quelle del Ttip”.

Ttip: atto di masochismo per il nostro benessere generale. “Cornuti e mazziati – commenta Leonardo Becchetti, professore di Economia politica dell’Università Tor Vergata – lo studio dello US department for agriculture analizza cosa succederebbe se il Ttip eliminasse le “barriere non tariffarie” nell’interscambio agricolo tra Ue e Stati Uniti. Dall’analisi del rapporto emerge chiaramente che l’approvazione del Ttip non è solo un atto di masochismo economico per noi. Il problema è più sostanziale. Un accordo del genere non può essere valutato solo in termini di impatto economico, ma di benessere generale. Qualcuno si è preoccupato di valutare gli effetti sulla salute dei cittadini e sulle condizioni di lavoro di chi opera nel settore? Rischiamo ancora una volta di essere vittime del riduzionismo economicista che identifica la nostra felicità con la riduzione dei prezzi dei prodotti. Ma il benessere è un’altra cosa: dobbiamo imparare sempre di più che dietro un prezzo basso possono nascondersi insidie alla nostra salute alle condizioni di lavoro. Quanti euro di risparmio nel carrello della spesa valgono più rischi sulla salute e condizioni di lavoro più precarie?”.

di MARTA RIZZO – 27 gennaio 2016

fonte: repubblica.it

Migranti, se in Svizzera le spese di accoglienza le pagasse la Nestlé?

migranti1-630x419Fili invisibili. Proviamo ad unirli. La Société des Produits Nestlé S.A (nota più semplicemente come Nestlé) ha sede in Svizzera e paga le tasse nel paese, contribuendo in parte anche ai costi del sistema sociale. Supponiamo che la stessa società, vada incontro a una causa legale per “chiudere un occhio” sul presunto sfruttamento di lavoro minorile dei suoi fornitori nelle piantagioni di cacao della Costa d’Avorio. A questo punto chi dovrebbe pagare le spese di accoglienza dei migranti?

Facciamo un passo indietro. La Nestlè avrebbe provato a fermare la causa presso la Corte suprema americana (aver permesso ed essere complice dello sfruttamento di bambini nei campi della Costa d’Avorio) in cui è accusata di essere a conoscenza dell’impiego di manodopera minorile da parte degli agricoltori local. Avrebbe permesso e finanziato i produttori per avere la materia prima che serve a parecchie sue produzioni a un prezzo basso a causa di tale sfruttamento.

Abby McGilldell’International Labour Rights Forum(che ha originariamente introdotto la causa) ha affermato che la sua organizzazione “ha lottato per molto tempo per rendere trasparente la catena dei fornitori e per ristorare le vittime” dello sfruttamento. Citando uno studio finanziato dal Dipartimento del Lavoro Usa, del luglio scorso, McGill dice che ci sono 2,12 milioni di ragazzi nei campi di Costa d’Avorio e Ghana, in crescita netta rispetto al milione stimato per l’anno prima. Altri dati, relativi al2013, dicono che in media il coltivatore di cacao di quelle regioni ha sei bambini e che sopravvive grazie a un reddito reale di 40 centesimi al giorno.

Questi dati, ampiamente diffusi sulla stampa internazionale, possono essere accostati a questi altri che dicono che la Svizzera ha deciso di imporre a chi chiede accoglienza di consegnare fino a1.000 franchi svizzeri dei loro beni per pagare le spese. La Svizzera, come la Danimarca, impone ai rifugiati di consegnare fino a 1.000 franchi svizzeri (circa 900 euro) dei loro beni per pagare le spese di accoglienza.

Ricapitolando: mentre il Ceo di Nestlé, Paul Bulcke, nel 2013 ha intascato 12,6 milioni di franchi (238 volte i dipendenti), i minori ivoriani sono costretti a lavorare nelle piantagioni da cui proviene una buona parte degli introiti della Nestlè per integrare il misero salario familiare. Oppure, per le bambine, l’alternativa è la prostituzione. Ma allora, se questi bambini, da soli o accompagnati dai loro genitori, volessero andare in Svizzera in cerca di quella vita decente che non trovano nel loro paese, perché chiedere loro di privarsi di quel poco che hanno? Non hanno forse già contribuito ad arricchire – con  il loro lavoro – il paese verso cui sono diretti tramite i guadagni delle multinazionali che vi hanno sede? E se il governo svizzero non riesce a sostenere le spese per la loro accoglienza, perché non si rivolge direttamente alla Nestlé?

Niente di personale. Solo una favola che unisce fili invisibili.

Damiano Rizzi
Presidente Soleterre ONG e Tiziana vive ONLUS

fonte: ilfattoquotidiano.it – 16-01-2016

Le multinazionali del lavoro nero

Uno studio della Csi svela la presenza, nelle catene di approvvigionamento di 50 tra le più grandi aziende del pianeta, di attività economiche sommerse per 116 milioni di persone interessate. Shara Burrow: “Lavoratori condannati a vivere nella povertà”.

extracomunitari-lavoro33-1_2282Un nuovo rapporto della Csi (Confederazione internazionale del lavoro) svela la presenza, nelle catene di approvvigionamento di 50 tra le più grandi aziende del pianeta, di lavoro nero per 116 milioni di persone interessate (solo il 6% del personale ha un rapporto diretto con la società per cui lavora). Da sole, queste 50 società (che includono marchi del livello di Samsung, McDonalds, Nestlé) detengono una ricchezza accumulata di 3.400 miliardi di dollari statunitensi.

Nel rapporto (“Nouveaux fronts” 2016) si rileva un modello economico insostenibile, praticamente presente in tutti i paesi del mondo, e si traccia il profilo di 25 società con base in Asia, in Europa e negli Usa.L’inchiesta del sindacato mondiale mette in luce quanto segue: • la liquidità delle 25 aziende esaminate (equivalente a 387 miliardi di dollari statunitensi) potrebbe aumentare i salari dei lavoratori in nero (per 71,3 milioni di persone) di più di 5mila dollari statunitensi per anno; • negli Usa, 24 società (da Amazon a Walmart, a Walt Disney) detengono una ricchezza accumulata con cui si potrebbe comprare il Canada; • le entrate combinate di 9 imprese asiatiche (fra cui Foxconn, Samsung e Woolworths) – 705 miliardi di dollari statunitensi – equivalgono al valore degli Emirati Arabi; • in Europa 17 società (fra cui Siemens, Deutsche Post e G4s) si spartiscono redditi totali di 789 miliardi di dollari statunitensi, equivalenti al valore della Malesia.

“Gli utili – sottolinea il rapporto della Csi – vengono realizzati a spese di bassi salari, che non permettono ai lavoratori di vivere una vita dignitosa, e vengono fatti lievitare grazie a frodi fiscali o all’inquinamento di terre e acque. Non solo: in nome del profitto, la sicurezza è trascurata”. “Finché le imprese internazionali – commenta Shara Burrow, segretaria generale della Confederazione internazionale del lavoro – non accetteranno di accogliere le richieste di un salario minimo (177 dollari Usa al mese a Phnom Penh, 250 dollari a Giacarta, 345 dollari a Manila), condanneranno i lavoratori e le loro famiglie a vivere nella povertà”.

Per questo, per trasformare il modello economico delle imprese mondiali e porre un argine alle disuguaglianze, i dirigenti sindacali presenti al Forum economico mondiale di Davos, che si è tenuto dal 20 al 23 gennaio, hanno presentato un piano in 4 punti: 1) massima attenzione da parte dei datori di lavoro a un’equa distribuzione delle ricchezze, grazie a salari minimi che consentano una vita dignitosa, e a una contrattazione collettiva che si basi sul rispetto fondamentale della libertà sindacale; 2) rispetto delle norme di sicurezza e attenzione alla partecipazione dei lavoratori ai Comitati di sicurezza; 3) rispetto da parte dei governi dello stato di diritto, oltre che delle Linee guida per le imprese multinazionali; 4) priorità per i sistemi di protezione sociale previsti nei diversi ambiti nazionali.

Per ulteriori approfondimenti si rinvia al rapporto della Csi.

Silvana Paruolo, area politiche europee e internazionali Cgil nazionale

Fonte: http://www.rassegna.it/ – 04-02-2016