“Siamo in una nuova era del clima.” Un’affermazione che tuttavia ha ben poco di positivo. Secondo l’Onu la terra ha raggiunto il record di anidride carbonica nell’atmosfera. Stando alla diffusione del bollettino annuale dell’Organizzazione meteorologica mondiale il nostro pianeta sta soffocando a causa del surriscaldamento globale e di fenomeni come El Nino.
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La moda sfrutta i bimbi siriani rifugiati in Turchia
E’ quanto rivela un report di Business and Human Rights Resource Centre (Bhrrc), un’organizzazione non profit che ha chiesto a 28 grandi aziende di svolgere dei controlli approfonditi sul personale impiegato. Ecco quali sono i marchi coinvolti e le loro posizioni a riguardo
Le fabbriche turche di alcuni grandi marchi della moda internazionale sfruttano i bambini e i rifugiati siriani. A dirlo è un report di Business and Human Rights Resource Centre (Bhrrc), un’organizzazione non profit che ha chiesto a 28 grandi aziende di svolgere dei controlli approfonditi sul personale impiegato nei loro stabilimenti in Turchia. A rivelare la presenza di minori sfruttati sono stati i due grandi marchi Next e H&M. Primark e C&A hanno detto di avere identificato tra i lavoratori dei loro fornitori rifugiati siriani adulti. Altre case, come Adidas, Burberry, Nike e Puma, hanno detto di non aver trovato rifugiati siriani senza documenti nelle aziende da cui si riforniscono. Anche per questo, le Ong temono che il fenomeno sia ancora più diffuso, nonostante sia in discussione un accordo tra Unione Europea e Turchia per oltre 3 miliardi di euro di aiuti in cambio, tra le altre cose, di permessi di lavoro per gli immigrati siriani che, così, alleggerirebbero i flussi diretti verso il Vecchio Continente.
Il timore del Bhrrc è che il problema sia più esteso di quello emerso fino ad oggi. La Turchia è uno dei Paesi dove è forte la presenza di fabbriche che lavorano per i grandi marchi internazionali nel campo dell’abbigliamento. Sono 28 i brand alle quali l’organizzazione ha richiesto un’indagine approfondita sui propri stabilimenti e quelli dei propri fornitori. La risposta di soltanto due tra queste e l’elevato numero di profughi siriani presenti nel Paese, circa 2,5 milioni, fa pensare a Bhrrc che il fenomeno possa essere più vasto e diffuso. Next e H&M, dopo aver svolto i propri controlli, hanno comunque fatto sapere che si adopereranno per garantire a questi bambini un’educazione e supporto alle loro famiglie.
Tra le aziende coinvolte, sostiene il Guardian in una sua inchiesta, ci sarebbe anche il brand italiano Piazza Italia che, secondo quanto il quotidiano inglese, è stato contattato dal giornalista ma non ha voluto rilasciare commenti.
In Turchia questa situazione ha raggiunto numeri preoccupanti, si legge nel report, nonostante alcuni brand abbiano svolto dei controlli per assicurarsi che i rifugiati non siano “in fuga dal conflitto e sottoposti a condizioni lavorative di sfruttamento”. Secondo l’organizzazione sarebbero centinaia di migliaia i rifugiati siriani che lavorano con stipendi inferiori al salario minimo consentito, soprattutto in fattorie e aziende agricole nelle aree più remote del Paese. Esperti del Centre for Middle Eastern Strategic Studies (ORSAM) parlano di almeno 250 mila rifugiati siriani che stanno lavorando illegalmente in Turchia.
Bhrrc si dice preoccupata soprattutto perché “solo poche di queste aziende sembrano tenere in considerazione e monitorare problemi di questo tipo nelle fabbriche dei loro fornitori in Turchia”, tanto che spesso le ispezioni vengono preannunciate, permettendo ai responsabili di coprire le irregolarità: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.
Non è la prima volta che le vicende legate alla guerra civile siriana e le fabbriche di abiti turche si intrecciano. Secondo alcuni report, loStato Islamico controllerebbe circa il 75% dei campi di cotone siriani, con il prodotto finale che, come succedeva prima dello scoppio de conflitto, nel 2011, viene esportato in gran parte in Turchia, dove poi viene utilizzato per la produzione di abiti destinati ai negozi occidentali. Una situazione che permetterebbe agli uomini di Abu Bakr Al Baghdadi di arricchirsi grazie a un mercato che ha come cliente finale i cittadini europei e americani.
ilfattoquotidiano.it – 01 febbraio 2016
Coca Cola in ritirata dal Rajasthan: vincono i contadini
Da oltre 10 anni villaggi e comunità rurali si erano mobilitati contro il gruppo accusandolo di derubare le risorse idriche destinate alle campagne
MILANO – Il Rajasthan indiano ferma la Coca Cola e costringe il colosso americano a battere in ritirata sospendendo l’imbottigliamento della bibita in tre impianti del Paese. Il gigante statunitense ha quindi ceduto alla pressioni che proseguono da oltre 10 anni durante i quali numerosi villaggi e comunità rurali in India si sono mobilitati, con proteste, manifestazioni, boicottaggi e liti legali, contro la Coca Cola e la Pepsi Cola, accusandole di derubare le risorse idriche destinate alle campagne, di usurpare le terre delle comunità contadine e di inquinare il suolo, attraverso il rilascio nel terreno di sostanze chimiche usate per il riutilizzo delle bottiglie.
In India l’agricoltura utilizza il 91% dell’acqua piovana, contro il 7% utilizzato dalle aree urbane e il 2% dall’industria. Gli impianti di imbottigliamento della Coca Cola (e della rivale Pepsi) sono accusati di consumare enormi quantità di acqua per la produzione delle bevande e il lavaggio delle bottiglie, a scapito proprio dei lavori agricoli della zona. Coca Cola ha sempre respinto le accuse, ma è stata anche costretta, nel corso di oltre un decennio, a ritirare molte domande di permessi per lo sfruttamento idrico delle falde acquifere.
Adesso la Hindustan Coca Cola ha annunciato di aver deciso la riorganizzazione operatività delle sue 24 società di imbottigliamento che operano in India e di aver deciso di chiudere l’impianto di Kaladera e altri due stabilmenti, uno nel Meghalaya e l’altro nell’Andhra Pradesh. Il gruppo sostiene che si tratti di impianti vecchi che verranno riutilizzati come magazzini. Nel 2005, la Coca Cola aveva già chiuso un impianto di imbottigliamento nel Kerala, sull’onda delle proteste delle comunità rurali, mentre nel Rajasthan sono almeno 25 mila i contadini che si sono battuti contro gli impianti americani e adesso accolgono con soddisfazione la decisione dell’azienda.
“Siamo contenti – dice Mahesh Yogi, uno dei capi della protesta contro il colosso Usa – L’impianto consumava il livello delle falde lasciandoci senz’acqua per irrigare i campi”. “Il vero problema – replica un portavoce della Coca Cola – è che gli sforzi degli ambientalisti dovrebbero includere dei passi per costringere gli agricoltori a usare l’acqua in modo più efficiente”.
fonte: repubblica.it – 12-02-2016
Commercio: con gli accordi TTIP i piccoli imprenditori dell’agroalimentare saranno schiacciati
Lo confermano 2 rapporti diffusi dal Dipartimento dell’agricoltura Usa. Non soltanto creerà difficoltà serie, ma tornerà a favore degli stessi Stati Uniti in maniera prepotente rispetto ai benefici dell’Europa unita
ROMA – Sono 2 studi quasi manicali americani, diffusi dalla Campagna StopTtip, ad affermare chiaramente i benefici che gli Usa potranno trarre dagli accordi sul Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (in inglese, Transatlantic Trade and Investment Partnership, appunto: Ttip). Benefici che – secondo gli analisti statunitensi – saranno enormemente inferiori per l’Ue, che comunque non accenna a ritrattare il Trattato, in corso dal 2013 e che quando diverrà operativo si creerà la più grande area di libero scambio, dal momento che l’Unione Europea e gli Stati Uniti rappresentano la metà del Pil di tutto il mondo e un terzo del commercio globale.
I rapporti Usa che offendono l’Ue. Il 5 gennaio 2016, il Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti, sulle implicazioni del partenariato transatlantico (Ttip) per il settore agricolo, diffonde un approfondito documento dal quale emerge, nero su bianco, fino a che punto l’Unione Europea risentirà dalla firma dell’ accordo.
Tre sono i punti fondamentali.
1) – Innanzi tutto, si prevede l’eliminazione delle sole barriere tariffarie e dei contingenti tariffari di importazione (Trq), la qual cosa farà sì che le esportazioni agricole degli Stati Uniti verso l’Ue aumenteranno di 5,1 miliardi di euro rispetto ai livelli del 2011, mentre quelle dell’UE verso gli Usa crescerebbero di appena 0,7 miliardi di euro (le esportazioni agricole UE diminuirebbero dello 0,25%).
2) – Il secondo scenario anticipa anche l’eliminazione delle barriere non tariffarie (Ntm): nel settore agricolo, le Nmt riguardano la sicurezza alimentare e se fossero eliminate, le esportazioni Usa crescerebbero di ulteriori 3,8 miliardi di euro, mentre quelle UE aumenterebbero di 1,1 miliardi.
3) – Il terzo scenario analizza come tutto ciò influenzerebbe la domanda dei consumatori, i quali si orienterebbero sempre più ad acquistare prodotti locali piuttosto che importati, cancellando così qualsiasi guadagno derivante dalla rimozione delle barriere tariffarie (anche se questo è il principale obiettivo dichiarato del Ttip). Un secondo rapporto dello stesso Dipartimento americano, ribadisce i concetti.
Un massacro per l’Ue e per l’Italia. La Campagna StopTtip è tra le pochissime realtà d’Europa a battersi contro un trattato a cui i media sembrano non pensare. Ed è l’osservatorio della Campagna stessa ad aver diffuso i due rapporti americani. “Il ministero dell’Agricoltura Usa – spiega Monica Di Sisto, portavoce della CampagnaStop Ttip – è onesto nell’ammettere che, se con il Ttip vuole accelerare il commercio tra Usa e Ue per prodotti agricoli e cibo, bisogna eliminare non tanto dazi e problemi di dogana, ma le regole che ancora oggi ci proteggono, in Europa, da ormoni della crescita, residui di pesticidi, cibi biotech e tossicità simili. Pur facendolo, saranno gli Usa a guadagnarci in esportazioni, fino a 1000 volte più dei nostri Paesi, e in settori già massacrati per l’economia italiana come latte, carni rosse, frutta, verdura, olio.
Il fattpre “C“, cioè la coscienza dei consumatori. Gli imponenti flussi di prodotti e servizi in arrivo dagli Stati Uniti satureranno il mercato europeo, che per oltre l’80% dei produttori italiani, piccoli e medi, è l’unico mercato possibile, diminuendo ulteriormente le loro possibilità di sopravvivenza. Gli Usa, però, hanno anche valutato un terzo scenario: se tutti noi cittadini consumatori e le imprese che lavorano in qualità e quelle amministrazioni locali che legano la promozione dei loro territori e culture a prodotti sani e non massificati, non si fideranno delle nuove regole, non ci sarà da guadagnare per nessuno, perché tutti i prodotti a rischio verranno lasciati nei mercati e negli scaffali, e chi li produrrà verrà punito dalle scelte sbagliate dei Governi. Come Campagna StopTtip, lo chiamiamo “fattore C”: quello della coscienza di cittadini e consumatori, che si opporrà fino all’ultimo a politiche sbagliate come quelle del Ttip”.
Ttip: atto di masochismo per il nostro benessere generale. “Cornuti e mazziati – commenta Leonardo Becchetti, professore di Economia politica dell’Università Tor Vergata – lo studio dello US department for agriculture analizza cosa succederebbe se il Ttip eliminasse le “barriere non tariffarie” nell’interscambio agricolo tra Ue e Stati Uniti. Dall’analisi del rapporto emerge chiaramente che l’approvazione del Ttip non è solo un atto di masochismo economico per noi. Il problema è più sostanziale. Un accordo del genere non può essere valutato solo in termini di impatto economico, ma di benessere generale. Qualcuno si è preoccupato di valutare gli effetti sulla salute dei cittadini e sulle condizioni di lavoro di chi opera nel settore? Rischiamo ancora una volta di essere vittime del riduzionismo economicista che identifica la nostra felicità con la riduzione dei prezzi dei prodotti. Ma il benessere è un’altra cosa: dobbiamo imparare sempre di più che dietro un prezzo basso possono nascondersi insidie alla nostra salute alle condizioni di lavoro. Quanti euro di risparmio nel carrello della spesa valgono più rischi sulla salute e condizioni di lavoro più precarie?”.
di MARTA RIZZO – 27 gennaio 2016
fonte: repubblica.it
Movimento Gocce di Giustizia – 20 anni di impegno per una cultura di giustizia
Movimento Gocce di Giustizia – 20 anni di impegno per una cultura di giustizia
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TTIP, la Commissione UE mantiene la giustizia privata delle multinazionali
Gli investitori stranieri potranno sfruttare le corti private previste dagli accordi con il Canada.
“Sprecati” tutti i miglioramenti previsti per l’ISDS, il “tribunale” che dovrebbe giudicare sulle controversie fra multinazionali e Stati in caso di violazione dell’accordo commerciale transatlantico. Le modifiche della Commissione europea continuano a dare agli investitori stranieri un sistema di giustizia privilegiata per sfidare le norme dell’UE in materia di diritti sociali, ambiente e salute. Fino a quando la Commissione non è disposta a cambiare i privilegi degli investitori stranieri previsti nell’accordo commerciale “gemello” del TTIP, (il CETA, per i rapporti UE-Canada) le modifiche annunciate oggi restano inefficaci.
Vi state chiedendo perché?
Bene, il Commissario per i commerci dell’Unione europea, Cecilia Malmström, ha recentemente affermato che non è disposta a modificare l’accordo con il Canada, che contiene un meccanismo diverso per risolvere le controversie investitori-stati…quindi le aziende statunitensi con una controllata canadese potrebbero aggirare gli eventuali miglioramenti contro la giustizia aziendale privata del TTIP e ricorrere alle corti private previste nel CETA!
La Commissione continua insomma a sostenere un sistema di giustizia a due velocità – una privilegiata per le multinazionali per proteggere i loro interessi privati, e una “di base” per i cittadini e le piccole e medie imprese- ma l’ambiente, la salute e la tutela dei consumatori, intanto, restano in pericolo.
Qualsiasi forma di giustizia privata per le multinazionali è inammissibile per noi e, anche senza un meccanismo ISDS, il TTIP e CETA restano una grave minaccia per la protezione ambientale tra le due sponde dell’Atlantico! Non siamo i soli a crederlo: più di 2.750.000 di persone hanno già firmato una petizione europea contro TTIP, e il 97 per cento degli intervistati di una consultazione pubblica della Commissione si oppone all’inclusione di corti private di investimento!
Aderisci anche tu: FIRMA ORA CONTRO IL TTIP!
Fonte: greenpeace.org
L’agricoltore francese avvelenato dall’erbicida vince la sua battaglia contro Monsanto
Il colosso Usa dovrà risarcire un contadino di cereali di Bernac. Nel 2004 era rimasto intossicato dal prodotto utilizzato (e poi vietato) per il mais
Davide contro Golia. Ossia il piccolo agricoltore francese che la spunta contro una multinazionale americana: la corte d’appello di Lione ha condannato il gruppo Monsanto, ritenuto responsabile dei gravi problemi di salute vissuti da Paul François, coltivatore di cereali a Bernac, nella Charente, profondo Ovest agricolo della Francia.
L’uomo è stato intossicato da un erbicida utilizzato per il mais e prodotto dalla società americana. «È un grande sollievo per me. Mi metto alle spalle otto lunghi anni di lott », ha detto François, dopo aver ascoltato la sentenza, che condanna Monsanto a risarcire « totalmente » il contadino per i danni fisici subiti. È la prima vittoria di questo tipo da parte di un agricoltore francese contro la multinzionale.
I fatti risalgono al 2004. François si ritrova a pulire un serbatoio contenente del Lusso, l’erbicida ora nell’occhio del ciclone. Sarebbero le inalazioni del gas tossico emanato da quel prodotto che avrebbero causato al contadino gravi problemi neurologici, classificati ormai dalle autorità francesi come malattia professionale dal 2010. «Vivo permanentemente sotto una spada di Damocle, ho delle lesioni che evolvono lentamente ». È classificato come handicappato parziale.
Nel 2012 in primo grado la giustizia francese gli aveva già dato ragione. Adesso Monsanto potrebbe fare ricorso alla Cassazione ma per il momento l’eventualità appare improbabile. In realtà Monsanto ha ritirato il Lasso dalla vendita in Francia nel 2007. E lo aveva già fatto nel lontano 1985 in Canada e nel 1992 in Belgio e nel Regno Unito. Nonostante questo i rappresentanti dell’azienda hanno continuato a difendersi durante il processo affermando che « il prodotto non era pericoloso ».
di LEONARDO MARTINELLI – fonte: lastampa.it 10-09-2015
Maltrattamenti e crudeltà nell’allevamento di polli, Mc Donald’s rescinde il contratto con fornitore
Nel video caricato su YouTube, e ripreso nella fattoria T&S Farm di Dukedom, si vedono più addetti alla soppressione degli animali usare lunghi bastoni dalla punta aguzza con cui spaccano crani senza andare troppo per il sottile e spezzare colli e ali del pollame tenendo la testa degli animali schiacciata sotto la suola delle scarpe e tirando il corpo al contrario.
Troppa crudeltà nell’uccidere i polli. McDonald’s si copre gli occhi e taglia la fornitura di pollame alla T&S Farms, uno tra i più grandi allevamenti degli Stati Uniti. Ancora una volta a scatenare la reazione indignata di un grande colosso industriale è un video girato clandestinamente da un gruppo animalista, Mercy for Animals. Nel video caricato su Youtube, e ripreso nella fattoria T&S Farm di Dukedom nel Tennessee, si vedono più addetti alla soppressione dei polli usare lunghi bastoni dalla punta aguzza con cui spaccano crani senza andare troppo per il sottile e spezzare colli e ali del pollame tenendo la testa degli animali schiacciata sotto la suola delle scarpe e tirando il corpo al contrario.
T&S è uno dei maggior produttori di carne di pollo per la Tyson Foods Inc., che a sua volta rifornisce direttamente McDonald’s. Dopo aver preso visione del filmato, entrambe le aziende hanno reciso immediatamente i legami con l’allevamento di pollame del Tennessee. Vale Sparkman, portavoce della Tyson, ha spiegato che sulla base “di quello che abbiamo visto nel video, abbiamo rescisso il contratto di fornitura di polli dalla T&S per la nostra azienda. Siamo impegnati nel garantire il benessere animale, e questo video non descrive di certo come trattano i polli gli allevamenti da cui ci riforniamo”. McDonald’s, attraverso un comunicato, ha definito le azioni compiute nel video come qualcosa di “inaccettabile” e ha espresso il suo sostegno alla Tyson per aver posto fine al contratto con il fornitore incriminato. “Stiamo lavorando assieme a Tyson Foods per approfondire la situazione e rafforzare le nostre prospettive riguardo il tema della salute e del benessere animali a livello di fornitori”, c’è scritto nella dichiarazione della multinazionale del fastfood.
Vandhana Bala, uno degli avvocati di Mercy for Animals, ha spiegato i retroscena dello scoop. Il video è stato registrato di recente da uno dei componenti del gruppo che ha presentato domanda per un lavoro in T&S. L’uomo avrebbe lavorato presso l’azienda agricola per circa quattro settimane e durante quel periodo ha assistito ad oltre 100 casi di abuso e crudeltà sui polli. L’attivista di Mercy for Animals ha poi verificato diverse atrocità commesse sugli animali della T&S: i polli sono stipati in baracche dove rimangono sempre a contatto con le proprie feci prima di essere trasportati al macello; poi vengono spinti a crescere molto in fretta finendo per essere paralizzati dal loro peso. Decine di migliaia di polli vengono quotidianamente trasportati in un macello di Union City, nel Tennessee, dedicato esclusivamente alla creazione di carne per il classico Chicken McNuggets e altri prodotti di pollo per McDonald’s. “E’ importante per McDonald’s prendere una posizione etica contro questo tipo di orribili forme istituzionalizzate di maltrattamento degli animali”, ha dichiarato Bala al quotidiano Usa Today che a sua volta ha provato, senza ottenere risposta, a porre alcune domande ai responsabili dell’allevamento incriminato. McDonald’s, più volte nel mirino di animalisti e associazioni di consumatori, nel marzo 2015 aveva rivisto diversi ingredienti del proprio menù nei suoi ristoranti americani iniziando ad utilizzare polli privi di antibiotici e latte parzialmente scremato proveniente da mucche non cresciute con l’ormone artificiale rbST.
Infine, il video che ha suscitato le proteste di Tyson Food Inc. e McDonald’s è l’ultimo di una serie di denunce da parte di gruppi animalisti che cercano di mettere in luce le brutalità e le cattive condizioni di vita di pollame e bestiame allevato con fini commerciali. Tra gli obiettivi dei blitz animalisti, praticati in Italia ultimamente dall’associazione Essere Animali, c’è anche quello di un controllo più rigoroso sugli allevamenti del cibo che mangiamo anche se per molti legislatori in stati come Iowa, Missouri e Kansas, è avvenuto esatto contrario, sventolando sotto al naso degli animalisti la possibilità di multe salate, o addirittura il carcere, per aver girato video sotto copertura all’interno di un luogo di lavoro che vieta questa pratica.
Fonte: www.ilfattoquotidiano.it di Davide Turrini | 28 agosto 2015
Nestlè accusata di sfruttare la schiavitù in Thailandia
Una class action è stata presentata in un tribunale statunitense contro Nestlé. La multinazionale svizzera è stata accusata di aver venduto le scatolette di cibo per gatti “Fancy Feast” sapendo che il pesce contenuto è stato fornito da un’azienda thailandese accusata di tenere in condizioni di schiavitù i lavoratori. Del caso si sono occupati i principali media americani: qui si può leggere il resoconto di Yahoo Finance, qui l’articolo del New York Times che parla, avendo consultato i documenti delle Dogane Usa, del coinvolgimento non solo di Nestlè ma anche di marchi come Iams e Meow Mix.
“Nascondendo al pubblico questi fatti”, ovvero lo sfruttamento del lavoro, “Nestlé ha effettivamente raggirato milioni di consumatori, che hanno così sostenuto e incoraggiato il lavoro forzato su prigioni galleggianti” ha detto l’avvocato Steve Berman, che rappresenta le quattro persone che hanno presentato la class action “in nome di tutti gli acquirenti di Fancy Feast in California”. “È un fatto che migliaia di acquirenti non avrebbero comprato questo prodotto se avessero saputo la verità, ovvero che centinaia di persone sono messe in schiavitù, picchiate e persino uccise durante la produzione di questo cibo per animali”.
Nestlé ha risposto che il lavoro forzato “non ha posto nella nostra catena di fornitura”. L’azienda non ha commentato l’azione legale, ma ha detto che sta lavorando con un’organizzazione non governativa per “identificare dove vi siano abusi e lavoro forzato” in Thailandia e nel sud-est asiatico. Secondo la class action, Nestlé lavorerebbe con Thai Union Frozen Products Pcl per importare più di 13 milioni di chilogrammi di cibo per animali da vendere negli Stati Uniti e che alcuni degli ingredienti dei suoi prodotti sarebbero il frutto di lavoro forzato.
http://www.ilsole24ore.com/ 29-08-2015
Approfondimento: Nestlè denunciata per aver sostenuto forme di schiavismo nel sud est asiatico. Non sarebbe il caso che anche i consumatori italiani vengano avvertiti?
13 agosto 2015: Earth Overshoot Day
Il giorno del superamento che misura l’impronta ecologica: Earth Overshoot Day 2015
Il 13 agosto è il giorno del superamento del 2015, chiamato Earth Overshoot Day. Questa data rivela il giorno in cui l’umanità ha consumato tutte le risorse naturali che madre terra ci mette a disposizione per arrivare fino alla dfine dell’anno.
Questo significherà che stiamo vivendo oltre il limite. Dopo questa data manterremo il nostro debito ecologico prelevando stock di risorse ed accumulando anidride carbonica in atmosfera, inquinando così il pianeta senza dargli la possibilità di rigenerarsi. Questo significa che siamo costretti a mangiarci il seme che è il principio della vita.
Nel 2014 il giorno del superamente era accaduto il 19 agosto, mentere nel 2013 il 20 di agosto.
Vi invitiamo a leggere questo articolo molto interessante ed importante, clicca qui Earth Overshoot Day 2015